Con due distinte sentenze, la n. 783/2022 pubblicata il 24 gennaio 2022 e la n. 881/2022 pubblicata il 26 gennaio 2022, il T.A.R. del Lazio si è soffermato lungamente sulle modalità di verbalizzazione delle operazioni concorsuali e di funzionamento degli organi collegiali.
Con la prima delle due sentenze dianzi richiamate, i Giudici hanno evidenziato che, per consolidata giurisprudenza, il verbale della Commissione esaminatrice di un concorso pubblico costituisce un atto pubblico, che è assistito da fede privilegiata, facendo prova sino a querela di falso di quanto in esso attestato (in termini, tra le tante, Cons. Stato, Sez. III, 2-OMISSIS-febbraio 2013, n. 1222; Sez. III, 23 marzo 2012, n. 1690; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 22 ottobre 2013, n. 2338). Più precisamente, l’art. 2700 del cod. civ. dispone che l’atto pubblico fa piena prova, sino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Ne consegue che è riservata al giudizio di querela di falso la proposizione e l’esame di ogni questione concernente l’alterazione nel verbale della realtà degli accadimenti e dell’effettivo svolgersi dei fatti (T.A.R. Roma, (Lazio) sez. III, 21/11/2019, n. 13363).
Motivo per cui i lavori della Commissione restano validi ed efficaci anche se, nello stesso giorno della correzione degli elaborati, un componente della stessa risultava impegnato in altri incarichi istituzionali, come evincibile da comunicati stampa on-line, articoli giornalistici e persino riprese audio-video pubblicate su profili Facebook istituzionali.
Con la seconda sentenza citata, invece, il Tribunale ha escluso l’esistenza di profili di illegittimità derivanti dalla non contestualità della firma del verbale da parte della Commissione.
Nello specifico degli atti degli organi collegiali, affermano infatti i Giudici, di norma la forma scritta non qualifica le decisioni adottate dagli stessi potendosi le stesse manifestare mediante forme anche diverse dallo scritto, come per le votazioni e proclamazione delle stesse.
Successivamente rispetto alle votazioni espresse nell’ambito di un collegio, si procede a stilare l’atto di deliberazione che, in pratica, riproduce un atto già di per sé valido ed efficace.
In tal caso il documento amministrativo contenente le manifestazioni di volontà del consesso ha la funzione di conservare alla memoria la deliberazione così come è stata adottata.
Pertanto nell’ambito degli organi collegiali, la volontà viene manifestata mediante formalità che possono essere anche differenti dall’atto scritto.
La documentazione dell’atto, ovvero le deliberazioni, trova la sua fonte nella verbalizzazione di quanto viene manifestato all’interno della seduta del consesso.
Detto verbale forma la memoria conservativa rispetto a quanto è accaduto nell’ambito delle decisioni intraprese dall’assemblea e va a costituire la documentazione amministrativa necessaria ai fini amministrativi.
Tale verbalizzazione può avvenire, in certi casi, anche nella seduta successiva, in cui viene dato atto della deliberazione adottata (già adottata e perfezionata, quindi), nella seduta precedente.
Secondo la giurisprudenza, infatti, il verbale ha il compito di attestare il compimento dei fatti svoltisi in modo tale che sia sempre verificabile la regolarità dell’iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, senza che sia necessaria una indicazione minuta delle singole attività che sono state compiute e le singole opinioni espresse.
Pertanto, distinguendo tra atto documentato e verbale ed anche tra documento e verbale in cui si conserva l’atto già valido, l’iter logico seguito per l’adozione di una deliberazione da parte di un organo collegiale deve risultare dalla delibera stessa e non dal verbale della seduta poiché il verbale ha l’esclusivo compito di certificare fatti storici già accaduti e di assicurare certezza a delle determinazioni che sono già state adottate e che sono già entrate a fare parte del mondo giuridico dal momento della loro adozione (cfr. Consiglio di Stato 11 dicembre 2001, n. 6208): la mancanza o il difetto di verbalizzazione non comportano, quindi, l’inesistenza dell’atto amministrativo, poiché a determinazione di volontà da parte dell’organo è distinta inequivocabilmente dalla sua proiezione formale.
Il difetto di verbalizzazione, in sintesi, non comporta l’inesistenza dell’atto amministrativo, dato che la determinazione volitiva dell’organo è ben distinta dalla sua proiezione formale (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4373), confermandosi, così, la distinzione tra atto deliberato e sua verbalizzazione.
Dal punto di vista contenutistico, di conseguenza, l’atto di verbalizzazione, ha una funzione di certificazione pubblica, contiene e rappresenta i fatti e gli atti giuridicamente rilevanti che è necessario siano conservati per le esigenze probatorie con fede privilegiata – dal momento che sono redatti da un pubblico ufficiale – che si sostanzia essenzialmente nella attendibilità in merito alla provenienza dell’atto, alle dichiarazioni compiute innanzi al pubblico ufficiale ed ai fatti innanzi a lui accaduti (cfr. Cass., sez. I, 3 dicembre 2002, n. 17106).
Infine, concludono i Giudici, deve rammentarsi, che, secondo la maggioritaria giurisprudenza amministrativa, con la quale si concorda pienamente, il verbale non deve essere necessariamente prodotto ed approvato in contemporaneità con la seduta dell’organo collegiale, ma può essere prodotto anche in un momento successivo al provvedimento deliberativo adottato durante la seduta (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1189-2001).