Con la recente ordinanza n. 16929 del 25 maggio 2022, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui «in tema di pubblico impiego privatizzato, l’attribuzione del buono pasto è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva); ne consegue che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che, beneficiando delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, osservano, in concreto, un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore, né può valere l’equiparazione de/periodi di riposo alle ore lavorative di cui al comma 1 dell’art. 39 dello stesso d.lgs., che vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”, in quanto l’attribuzione dei buoni pasto non riguarda né la durata né la retribuzione del lavoro ma è finalizzata a compensare l’estensione dell’orario lavorativo disposta dalla P.A., con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire il recupero delle energie psico-fisiche degli interessati» (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137).
Pertanto, proprio perché il diritto ai buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, non assume alcun rilievo ai fini della loro attribuzione l’assimilazione (disposta dall’art. 39, co. 2, del D.Lgs. 151/2001) delle ore di permesso per allattamento a quelle di lavoro ai fini della «retribuzione».