Con la recente ordinanza n. 17912 del 28 giugno 2024, la Sezione Lavoro della Cassazione ha espresso il seguente principio: «in tema di pubblico impiego privatizzato, il disposto dell’art. 2126 c.c. non si pone in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che prevedano autorizzazioni o con le regole normative sui vincoli di spesa, ma è integrativo di esse nel senso che, quando una prestazione, come quella di lavoro straordinario, sia stata svolta in modo coerente con la volontà del datore di lavoro o comunque di chi abbia il potere di conformare la stessa, essa va remunerata a prescindere dalla validità della richiesta o dal rispetto delle regole sulla spesa pubblica, prevalendo la necessità di attribuire il corrispettivo al dipendente, in linea con il disposto dell’art. 36 Cost.».
È indubbio, infatti, che la contrattazione collettiva prevede che il lavoro straordinario sia preventivamente autorizzato dal dirigente sulla base di specifiche esigenze di servizio.
La Suprema Corte di Cassazione ha tuttavia già chiarito in passato che il diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto, che presuppone la previa autorizzazione dell’amministrazione, spetta al lavoratore anche laddove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., applicabile anche al pubblico impiego contrattualizzato, interpretato alla luce degli artt. 2 e 40 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 97 Cost., prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario se debitamente autorizzato e che, dunque, rispetto ai vincoli previsti dalla disciplina collettiva, la presenza dell’autorizzazione datoriale è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. (Cass. n. 23506/2022).
Nel dare continuità a tali principi, la Sezione Lavoro della Cassazione ha ribadito che, nell’ambito del lavoro straordinario, per autorizzazione si intende il fatto che le prestazioni non siano svolte insciente vel prohibente domino, ma con il consenso del medesimo e che il consenso alle prestazioni può anche essere implicito. Tale consenso, come si è scritto sopra, una volta esistente, integra gli estremi che rendono necessario il pagamento e ciò anche ove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo.
I principi suesposti, precisa la Corte, hanno del resto trovato continuità in fattispecie del tutto contigue, come quella della remunerazione a titolo di straordinario delle prestazioni rese a titolo di compenso incentivante, ove manchi la realizzazione dei presupposti propri di esso, ma vi sia superamento del debito orario (Cass. n. 25696/2023) o quella delle prestazioni rese a favore di terzi con il consenso della P.A. di appartenenza, sempre oltre il debito orario (Cass. n. 27842/2023).
Il Collegio ha poi ulteriormente precisato che, sul piano delle fonti, nel pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’attribuzione dei trattamenti economici è in effetti riservata alla contrattazione collettiva, sicché non è sufficiente a tale scopo un atto deliberativo della P.A., ma occorre, a pena di nullità, la conformità di tale atto alla contrattazione collettiva (Cass. nn. 11645/2021; 17226/2020).
Nei casi come quello di specie quanto accade è però che, sebbene l’autorizzazione prevista dal CCNL risponda ad ulteriori ragioni (programmatiche, di spesa, etc.) o risalga a fattispecie diversa da quella dello straordinario (ad es. attività da remunerare con compensi incentivanti di cui non si realizzino i presupposti), rispetto alla remunerazione del lavoratore ciò che conta è lo svolgimento del lavoro su incarico anche solo implicito del datore e non contro la volontà di questi, sicché non rileva il fatto che siano osservate forme, né che l’autorizzazione si manifesti per qualunque ragione come invalida o potenzialmente tale, oppure come inidonea (v. il caso dei compensi incentivanti) al suo scopo originario.
A ben vedere, quello che si realizza in tal modo non è un reale contrasto tra la norma del codice civile (art. 2126 c.c., qui in relazione all’art. 2108 c.c.) e le regole che disciplinano l’autorizzazione nella contrattazione collettiva e quindi di un contrasto tra le previsioni di legge e quest’ultima. Al di là del regime del rapporto tra le fonti, mutevole nelle diverse versioni normative del pubblico impiego privatizzato succedutesi nel tempo, attraverso l’applicazione dell’art. 2126 c.c. viene regolata una fattispecie ulteriore e comune, in tutto il diritto del lavoro, alle prestazioni subordinate svolte coerentemente con la volontà datoriale, ma in condizioni non conformi al regime di validità proprio di esse, le quali vanno ciononostante remunerate, ovviamente secondo il quantum previsto, per tali prestazioni e per quanto riguarda il pubblico impiego privatizzato, dalla contrattazione collettiva.
D’aItra parte, prosegue l’ordinanza, la fattispecie di cui all’art. 2126 c.c. è indubbiamente espressiva, nell’evoluzione dell’ordinamento, del precetto di cui all’art. 36 Cost. e non a caso, recentemente, Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8, nel vagliare la legittimità dell’art. 2033 c.c., rispetto alla ripetizione di pagamenti indebiti nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, ha evidenziato come l’art. 2126 c.c., in ragione della protezione da esso assicurata alla «causa dell’attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si di mostra giuridicamente non dovuta», giustifica «sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l’irripetibilità del medesimo», ponendosi, sotto quest’ultimo profilo, come uno dei parametri di equilibrio dell’ordinamento a fronte di pretese recuperatorie sproporzionate rispetto alle situazioni coinvolte, ma inevitabilmente giustificando e corroborando la centralità della norma anche ove vista sotto il profilo della prestazioni retributive che essa impone siano adempiute, pur in assenza di validità, anche solo in parte, del rapporto di lavoro e delle prestazioni rese.
Ciò vale anche sotto il profilo delle regole di spesa.
È vero che, secondo questa Suprema Corte, le remunerazioni delle prestazioni nel pubblico impiego possono essere riconosciute solo se in linea con le previsioni ed allocazioni di spesa e che l’accordo incoerente con esse è invalido (Cass. n. 5679/2022) e rende pertanto ripetibili eventuali pagamenti eseguiti sulla sua base (Cass. n. 14672/2022). Tuttavia, una volta autorizzata e svolta la prestazione, non è sul lavoratore, in forza dell’asse sostanzia le della disciplina di cui all’art. 36 Cost. e 2126 c.c., che possono gravare le conseguenze della divergenza rispetto agli impegni di spesa.
Tale divergenza può certamente impedire di riconoscere aumenti di corrispettivo non coperti da una regolare conduzione della contrattazione o di riconoscere speciali emolumenti di cui siano carenti i necessari presupposti quali previsti dalla contrattazione collettiva, ma non può essere di ostacolo al pagamento di una prestazione ulteriore a quella ordinaria che sia resa non insciente vel prohibente domino o comunque in modo incoerente con la volontà del datore. Ciò è già stato del resto affermato rispetto ad alcune fattispecie giunte alla disamina di questa Suprema Corte (v. Cass. n. 28938/ 2019, in tema di compenso per i turni di pronta reperibilità svolti in eccedenza ai limiti della contrattazione collettiva) e va qui ribadito anche rispetto alla presente ipotesi.
Semmai il tema si sposta sul piano della responsabilità, verso la Pubblica Amministrazione, dei preposti che non avrebbero in ipotesi dovuto consentire quelle lavorazioni; ma non può ammettersi che il sistema giuridico, contro il disposto di norme centrali di esso, sia alla fine declinato in pregiudizio del prestatore di lavoro subordinato che abbia svolto l’attività sua propria ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali già richiamati.
Restano però al di fuori dal diritto alla retribuzione – a meno di prestazioni svolte contro norme a tutela del prestatore di lavoro – le nullità afferenti alla prestazione o alla sua richiesta che si riconnettano ad illiceità dell’oggetto o della causa.