Come questa Corte ha già evidenziato in passato (si v., Cass., n. 14344 del 2019), la disciplina di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, pur escludendo, in caso di violazione di norme imperative in materia, la conversione in contratto a tempo indeterminato, introduce un proprio e specifico regime sanzionatorio con una accentuata responsabilizzazione del dirigente pubblico e il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dalla lavoratrice e, pertanto è speciale ed alternativa rispetto alla disciplina di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, ma pur sempre adeguata alla direttiva 1999/70/CE, e alla giurisprudenza della CGUE, in quanto idonea a prevenire e sanzionare l’utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte della pubblica amministrazione (si v., Cass. n.392 del 2012; cfr. anche, tra le altre, Cass. n. 5072 del 2016 nonché Cass. n. 22552 del 2016).
La sentenza CGUE, 12 dicembre 2013, causa C-50/13, P., ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato (si v. Cass., S.U., n. 5072 del 2016).
La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così “lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia”.
La mancata indicazione delle ragioni giustificative dell’apposizione del termine al contratto, poi prorogato, dà luogo ad una abusiva reiterazione del contratto a termine, che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 1999/70/CE, e dà luogo al diritto al risarcimento del danno secondo i principi sanciti da Cass., S.U., n. 5072 del 2016, alla luce di quanto affermato dalla CGUE, non trovando applicazione nel pubblico impiego contrattualizzato, la misura della trasformazione.
Le Sezioni Unite questa Corte, con riferimento all’art. 36, del d.lgs. n. 165 del 2001, hanno già avuto modo di chiarire che nell’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione, il pregiudizio economico oggetto di risarcimento non può essere collegato alla mancata conversione del rapporto: quest’ultima, infatti, è esclusa per legge e trattasi di esclusione affatto legittima sia secondo i parametri costituzionali che secondo quelli comunitari (Cass. S.U. n. 5072 del 2016).
Piuttosto, considerato che l’efficacia dissuasiva richiesta dalla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE postula una disciplina agevolatrice e di favore che consenta al lavoratore che, come nella specie, abbia patito la reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una presunzione di legge circa l’ammontare del danno, che sarà normalmente correlato alla perdita di chance di altre occasioni di lavoro stabile, le Sezioni Unite hanno rinvenuto nell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 (si v. oggi l’art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015), una disposizione idonea allo scopo, nella misura in cui, prevedendo un risarcimento predeterminato tra un minimo ed un massimo, consente pro tanto al lavoratore di essere esonerato dall’onere della prova, fermo restando il suo diritto di provare di aver subito danni ulteriori (cfr., Cass. S.U., n. 5072 del 2016).
È quanto si legge nell’ordinanza della Corte di Cassazione del 19 marzo 2020, n. 7476.