Con Ordinanza n. 15983 del 27 luglio 2020, la Cassazione si è espressa in merito ai contenuti della delibera di assimilazione dei rifiuti speciali che definisce i criteri qualitativi e quantitativi affinché questi ultimi siano considerati equivalenti ai rifiuti urbani e quindi conferibili al pubblico servizio.
Nel caso oggetto della sentenza, una società di elettrodomestici impugnava avvisi di accertamento TARSU, ritenendo che il tributo non fosse dovuto per mancanza dei limiti quantitativi di assimilazione dei rifiuti speciali a quelli urbani all’interno della delibera comunale che rendono quest’ultima di fatto illegittima.
Sulla questione si rilevano pronunce contrastanti da parte della stessa Corte: secondo un orientamento, la delibera di assimilazione dei rifiuti speciali non pericolosi a quelli urbani, presuppone, necessariamente, la concreta individuazione delle caratteristiche, non solo qualitative, ma anche quantitative dei rifiuti speciali, dal momento che l’impatto igienico ed ambientale di un materiale di scarto non può essere valutato a prescindere dalla sua quantità (Cass. Sez. 5, n. 30719 del 2011; Cass. Sez. 5 n. 9631 del 2012; Cass. Sez. 6-5, n. 18018 del 2013); tuttavia, come riportato all’interno della sentenza in commento “[…] da tale indirizzo si è apparentemente discostata la Cass. Sez. 5 n. 9214 del 2018, affermando che, ai sensi del Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articoli 7, 10 e 21, sono soggetti a tassazione i rifiuti speciali non pericolosi, se assimilati ai rifiuti solidi urbani da una delibera comunale, e ciò anche nell’ipotesi in cui la stessa non ne individui le caratteristiche quantitative e qualitative, spettando al contribuente solo una riduzione tariffaria in base a criteri di proporzionalità, nel caso in cui dimostri una riduzione della superficie tassabile ovvero che i rifiuti speciali siano avviati al recupero direttamente dal produttore, purché il servizio pubblico di raccolta e smaltimento sia istituito e sussista la possibilità per l’istante di avvalersene”.
La Corte, conformandosi a quanto appena riportato, ha affermato quanto segue:
“I due orientamenti sono tuttavia passibili di una composizione, che trova conforto nell’interpretazione letterale e sistematica del dato normativo, se applicati entrambi con le seguenti precisazioni. L’utilizzo del criterio combinato della qualità e quantità trova il suo principale argomento giustificativo nel Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 21, che, nel definire le competenze del Comune in materia, al comma 2, lettera g), fa riferimento ad una assimilazione per qualità e quantità dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento. Tale doppio criterio corrisponde anche alla “ratio legis”, da individuarsi sia nella necessità di escludere ogni ipotesi di danno ambientale correlato alla raccolta e allo smaltimento del rifiuto assimilato, sia in quella di assicurare una gestione dei rifiuti urbani da parte dei Comuni ispirata a principi di efficienza, efficacia ed economicità; è evidente che tali finalità possono essere garantite solo predeterminando, almeno astrattamente, la quantità di rifiuto assimilabile conferibile […]. Nell’ipotesi in cui l’assimilazione non sia stata legittimamente disposta dall’ente locale, per violazione del criterio qualitativo, o anche per l’omessa previsione dell’ulteriore criterio quantitativo, non si rientrerà, invece, nel campo di operatività del Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 21, ma, previa disapplicazione della delibera comunale illegittima per contrasto con il Decreto Legislativo n. 22 del 1997, articolo 21, comma 2, lettera g), dovrà trovare applicazione solo la pregressa disciplina che in tema di rifiuti speciali prevedeva al Decreto Legislativo n. 507 del 1993, articolo 62, comma 3, la possibilità di una esenzione o riduzione delle superfici tassabili”.
I giudici hanno infine così concluso: “Disapplicata la delibera, l’esercizio illegittimo del potere di assimilazione potrà essere equiparato al mancato esercizio del potere di assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti solidi urbani da parte del Comune, rispetto al quale si è già affermato da questa Corte che non comporta che detti rifiuti siano, di per sé, esenti dalla tassa, in quanto essi sono soggetti alla disciplina stabilita per i rifiuti speciali dal Decreto Legislativo n. 507 del 1993, articolo 62, comma 3 (applicabile ratione temporis), che rapporta la stessa alle superfici dei locali occupati o detenuti, con la sola esclusione della parte della superficie in cui, per struttura e destinazione, si formano esclusivamente i rifiuti speciali non assimilati. (Cass. Sez. 5, n. 1975/2018). […]”.
Si osserva che l’articolo 1, comma 649 della Legge 147/2013 stabilisce che: “Nella determinazione della superficie assoggettabile alla TARI non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori, a condizione che ne dimostrino l’avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente. […]”.
A tal proposito, la pronuncia in commento sembra non tenere conto del fatto che le superfici produttive di rifiuti speciali sono esenti a norma della disposizione sopra riportata: alla luce di questo, è sempre consigliabile che il Comune definisca all’interno della delibera di assimilazione dei rifiuti speciali i limiti quantitativi; in assenza di questi infatti, i rifiuti prodotti dalle utenze non domestiche si configurano come “rifiuti speciali”, rendendo la superficie di fatto esente e obbligando il produttore ad un conferimento a soggetti diversi dal servizio pubblico.