Gli elementi costitutivi del diritto del dipendente ad ottenere il rimborso delle spese legali ai sensi dell’art. 67 del Dpr n. 268/1987, vanno individuati come di seguito indicato:
1- deve sussistere un rapporto di pubblico impiego tra l’ente ed il dipendente (la norma quindi non si applica ai titolari di uffici onorari od elettivi: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20193 del 25/09/2014, secondo cui il rimborso spese legali non compete all’assessore comunale, non essendo configurabile tra quest’ultimo e l’ente un rapporto di lavoro dipendente)
2- il dipendente pubblico deve essere stato tratto a giudizio penale o civile, ossia il giudizio nel quale il dipendente assume il ruolo di indagato/imputato o convenuto deve essere iniziato;
3- oggetto del procedimento penale o della controversia civile deve essere la attività materiale od amministrativa-provvedimentale compiuta dal dipendente, in quanto “direttamente connessa” a) all’espletamento del servizio; b) all’adempimento dei compiti di ufficio;
4- non deve sussistere – con valutazione “ex ante” da parte della PA, da compiere anche alla stregua degli accertamenti dei fatti risultanti dal giudizio: Corte cass. Sez. L – , Sentenza n. 34457 del 24/12/2019 – una situazione di “conflitto di interesse” tra l’ente ed il dipendente, ciò che la norma esprime anche indirettamente laddove ricollega il dovere dell’ente di assumere le spese legali “anche” a tutela dei propri diritti ed interessi.
Orbene, fermo il principio (condiviso in giurisprudenza) secondo il quale l’esito del giudizio – quando anche assolutorio in sede penale – od il mancato esercizio della azione disciplinare, o la omessa costituzione di parte civile dell’ente datore di lavoro, non hanno alcuna influenza sulla verifica del “conflitto di interesse” (che, al contrario, deve ravvisarsi tutte le volte in cui l’Amministrazione pubblica si sia attivata in via amministrativa, disciplinare o giudiziale, contestando al dipendente la illiceità od irregolarità dell’attività svolta), al fine di accertare la incompatibile divergenza tra le posizioni del dipendente e del Comune occorre che l’attività svolta dal primo sia estrinsecazione delle competenze allo stesso attribuite, nel senso che la condotta materiale o provvedimentale da quello tenuta sia riconoscibile come attività riferibile all’ente datore di lavoro, in quanto strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, ovvero compiuta nell’adempimento di doveri di servizio (cfr. Corte cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 2366 del 05/02/2016; id. Sez. L – , Sentenza n. 20561 del 06/08/2018; id. Sez. L – , Sentenza n. 34457 del 24/12/2019). Resta quindi esclusa dal diritto al rimborso delle spese legali, la ipotesi in cui i fatti ascritti al dipendente esulino dalla funzione svolta e costituiscano “grave violazione dei doveri d’ufficio” (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 2297 del 03/02/2014), ovvero la ipotesi in cui “la condotta addebitata sia stata il frutto di iniziative autonome, contrarie ai doveri funzionali o in contrasto con la volontà del datore di lavoro” (cfr. Corte cass. Sez. L – , Ordinanza n. 17874 del 06/07/2018).
La norma, infatti, viene a tutelare tanto il dipendente quanto l’Amministrazione di appartenenza, e tale coincidenza di interessi può trovare fondamento esclusivamente nella corrispondenza tra l’attività svolta dal primo – in quanto funzionale all’adempimento dei compiti o delle competenze amministrative assegnategli – ed il perseguimento degli obbiettivi nei quali viene ad attuarsi lo scopo istituzionale affidato all’ente pubblico: con la conseguenza – chiaramente esplicitata dal comma 2 dell’art. 67 del DPR n. 268/1987 – che confligge insanabilmente con l’interesse dell’ente un fatto od un atto commesso o compiuto dal dipendente “con dolo o colpa grave”. In sostanza la disciplina normativa in questione viene a collocarsi nell’ambito della comune responsabilità per colpa lieve della PA laddove la condotta materiale del dipendente (ad esempio il sinistro stradale che abbia visto coinvolto veicolo di servizio condotto dal dipendente) ovvero l’attività amministrativa svolta dallo stesso (in relazione a qualsiasi fase del procedimento amministrativo), in quanto imputabile all’ente, abbia determinato una esposizione di quest’ultimo alla responsabilità verso terzi: dunque, anche nella ipotesi in cui “per colpa” del dipendente (dipesa da imperizia, imprudenza, negligenza, inosservanza di norme, ordini o discipline) sia stato emesso un atto amministrativo affetto, non soltanto da mere irregolarità formali, ma da tipici vizi di legittimità (ascrivibili a violazioni di legge od omessa corretta ponderazione degli interessi sostanziali in conflitto), e che quindi abbia determinato un pregiudizio nella sfera di altri soggetti pubblici o privati, dai quali il dipendente venga chiamato a rispondere sul piano della responsabilità penale e/o – eventualmente unitamente all’ente – sul piano della responsabilità civile.
Occorre considerare, infine, che all’ “atto di gradimento” emesso dal Comune sulla scelta del legale di fiducia del dipendente non può riconoscersi effetto costitutivo del diritto, e neppure esplica carattere vincolante – in ordine alla sussistenza delle altre condizioni legali – nei confronti dell’ente che, con il gradimento, viene ad assolvere alla diversa esigenza – avuta presente dalla legge – di contemperamento dell’interesse del dipendente coinvolto nel giudizio a non subire i gravosi impegni economici che dovrebbe sostenere in relazione a fatti connessi all’esercizio delle funzioni, con l’interesse della Amministrazione pubblica a contenere entro limiti di spesa congrui – in considerazione delle possibilità consentite dallo stanziamento di bilancio ed avuto riguardo alla rilevanza e complessità della controversia – l’onere economico per i compensi professionali posto a suo carico (così Corte cass. n. 25976/2017 cit., in motivazione).
È quanto si evince dall’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 24461/2020.