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Nuovi orientamenti applicativi Aran novembre 2020

Riportiamo di seguito i nuovi orientamenti applicativi Aran pubblicati ieri sul sito istituzionale dell’Agenzia. 

L’art. 16, comma 3, del CCNL del comparto delle Funzioni locali 21.05.2018, ai fini dell’attribuzione delle progressioni economiche orizzontali, richiede che negli anni del triennio considerato vi sia stata anche l’erogazione dei relativi premi di performance individuale?
La disciplina dell’art. 16, comma 3, del CCNL 21.05.2018, ha inteso assumere quale presupposto per l’attribuzione delle progressioni economiche orizzontali le “risultanze della valutazione della performance individuale del triennio precedente l’anno in cui è adottata la decisione di attivazione dell’istituto”, senza che a tal fine rilevi la circostanza che, negli anni in riferimento, vi sia stata o meno l’erogazione in concreto dei relativi premi di performance individuale.
La ratio della disposizione, infatti, è quella di evitare che l’ente, come avveniva in passato, attivi due distinte procedure di valutazione relativa l’una alla performance individuale e l’altra alle progressioni economiche orizzontali, rette da criteri diversi.

Con quale criterio è possibile determinare, ai sensi dell’art. 16, comma 7, del CCNL del comparto delle Funzioni locali 21.05.2018, la data di decorrenza dell’attribuzione delle progressioni economiche orizzontali laddove il contratto integrativo non abbia stabilito esplicitamente nulla al riguardo?
Come espressamente stabilito dall’art.16, comma 7, del CCNL del comparto delle Funzioni Locali del 21.5.2018, l’attribuzione della progressione economica orizzontale non può avere decorrenza anteriore al 1° gennaio dell’anno nel quale viene sottoscritto il contratto integrativo che prevede l’attivazione dell’istituto, con la previsione delle necessarie risorse finanziarie.
La decorrenza del beneficio dovrebbe essere prevista dal contratto integrativo che prevede le nuove progressioni economiche orizzontali, ma nell’eventuale silenzio di esso si ritiene che per poter ricostruire la volontà delle parti contraenti di tale contratto si possa aver riguardo al finanziamento che è stato concordato per l’istituto delle progressioni economiche orizzontali.
Laddove, infatti, tale finanziamento sia stato previsto anche per l’intero anno in cui è stato definitivamente sottoscritto il contratto integrativo, si può ritenere che la volontà delle parti contraenti sia stata, in applicazione dell’art. 16, comma 7, del CCNL del comparto delle Funzioni Locali del 21.5.2018, nel senso di far decorrere il beneficio dall’inizio di tale anno.
Si raccomanda tuttavia di evitare una simile situazione limite prevedendo sempre esplicitamente una data di decorrenza dell’attribuzione delle progressioni economiche orizzontali nel contratto integrativo.

Nel caso di un contratto integrativo definitivamente sottoscritto alla fine dell’anno 2018 quale decorrenza è possibile dare all’attribuzione delle progressioni economiche orizzontali nel 2018?
Come espressamente stabilito dall’art.16, comma 7, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.5.2018, l’attribuzione della progressione economica orizzontale non può avere decorrenza anteriore al 1° gennaio dell’anno nel quale viene sottoscritto il contratto integrativo che prevede l’attivazione dell’istituto, con la previsione delle necessarie risorse finanziarie.
Di conseguenza, se il contratto integrativo che prevede le nuove progressioni economiche orizzontali è stato sottoscritto definitivamente comunque nel 2018, le stesse possono avere decorrenza dal 1° gennaio del 2018, ma possono avere decorrenza anche da una diversa data del 2018, successiva al 1° gennaio, che le parti abbiano ritenuto opportuno a tal fine prevedere.
Per completezza, informativa, si ricorda che le posizioni economiche “nuove” D7, C6, B8 e A6, previste dalla Tabella C allegata al CCNL del 21.5.2018, non possono avere comunque decorrenza anteriore all’1.4.2018, dato che esse sono state istituite dalla contrattazione collettiva nazionale solo da tale data.

È possibile dare automaticamente corso alla sottoscrizione definitiva di un contratto collettivo integrativo qualora l’organo di controllo non abbia formulato rilievi entro il termine di 15 giorni previsto dall’art. 8, comma 6, del CCNL 21.05.2018?
Con riferimento alla questione in esame, per quanto di competenza, si ritiene utile evidenziare  che, ai sensi dell’art. 8, comma 6 del CCNL del 21 maggio 2018, trascorsi quindici giorni dal momento del ricevimento del testo dell’ipotesi di accordo da parte del soggetto preposto al controllo, senza rilievi di quest’ultimo, previa autonoma verifica dei contenuti dell’ipotesi di accordo con particolare riferimento al profilo della rispondenza degli stessi alle direttive a suo tempo impartite, l’organo di governo competente dell’ente può autorizzare il presidente della delegazione trattante di parte pubblica alla sottoscrizione definitiva del contratto collettivo integrativo.
Dal tenore letterale della citata disposizione contrattuale, si evince dunque che la procedura negoziale di secondo grado non prevede, nel caso di carenza dei rilievi del soggetto preposto al controllo, la formazione di una sorta di silenzio-assenso vincolante al quale consegua l’automatica autorizzabilità della sottoscrizione definitiva del contratto collettivo integrativo da parte dell’organo di governo.
Pertanto, l’organo di governo dovrebbe adottare sempre comportamenti improntati alla massima prudenza ed in particolare potrebbe, ad esempio, attendere o sollecitare il parere dell’organo di controllo, anche dopo la scadenza del termine stabilito.
L’organo di governo potrebbe autorizzare la sottoscrizione del contratto collettivo integrativo, anche in mancanza della necessaria certificazione dell’organo di controllo, ma solo se, assumendosi la relativa responsabilità, sia effettivamente in grado di dimostrare e certificare il rispetto dei vincoli di competenza o di carattere economico-finanziario stabiliti dalla legge nonché l’assenza di contrasto con nome imperative o con la delega negoziale conferita dal CCNL alla contrattazione decentrata integrativa.
In proposito, si deve ricordare infatti che l’art. 40, comma 3-quinquies, del d.lgs.n.165/2001 e smi, con una disposizione di natura imperativa, espressamente dispone: “Le pubbliche amministrazioni non possono in ogni caso sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale o che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione”.
Tale precetto non può non riguardare e non vincolare anche le decisioni dell’organo di governo in considerazione del particolare ruolo che è chiamato a svolgere nell’ambito della procedura contrattuale.
La disciplina contrattuale è finalizzata ad assicurare la sollecita conclusione del procedimento negoziale di secondo livello, ma certamente non può essere intesa nel senso di espropriare di ogni potestà di valutazione e di decisione l’organo di governo, nel senso di imporgli comportamenti illegittimi e come tali suscettibili di dar luogo anche a forme di responsabilità per danno erariale.

La percentuale del 15% di cui all’articolo 15, comma 4, del CCNL 21.05.2018 deve essere considerata anche un vincolo per la quantificazione minima individuale della retribuzione di risultato dei dipendenti titolari di posizione organizzativa?
Con riferimento alla questione in esame, per quanto di competenza, si deve anzitutto tenere presente che l’art.15, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.5.2018, innovando il precedente sistema incentrato su una quantificazione individuale espressa in percentuale della retribuzione di posizione in godimento del lavoratore incaricato della titolarità di posizione organizzativa (art.10, comma 3, del CCNL del 31.4.1999), prevede, per il finanziamento della retribuzione di risultato, una quota non inferiore al 15% del complessivo ammontare delle risorse finalizzate all’erogazione della retribuzione di posizione e di risultato di tutte le posizioni organizzative previste dall’ordinamento dell’ente.
La percentuale del 15%, dunque, non costituisce più un valore standard ordinario o minimo della retribuzione di risultato, ma rappresenta solo il quantum minimo delle risorse complessivamente disponibili per il trattamento economico accessorio dei titolari di posizioni organizzative da destinare obbligatoriamente al finanziamento dell’istituto della retribuzione di risultato di tutte le posizioni organizzative previste dall’ordinamento dell’ente.
Sono gli enti, infatti, che definiscono, autonomamente, in sede di contrattazione integrativa, i criteri generali per la determinazione della retribuzione di risultato delle diverse posizioni organizzative, nell’ambito delle risorse a tal fine effettivamente disponibili.
Nel nuovo ambito regolativo, pertanto, è l’ente che definisce il valore della retribuzione di risultato delle posizioni organizzative, sulla base dei criteri generali preventivamente contrattati con le OO.SS.

Un dipendente assunto come Agente di polizia locale ed inquadrato nella categoria C, può svolgere anche mansioni di natura amministrativa, ascrivibili sempre alla categoria C, presso altri uffici dell’Ente?
Con riferimento al quesito in oggetto, appare anzitutto opportuno rilevare che la vigente contrattazione collettiva in materia di sistema di classificazione professionale del personale del Comparto delle Funzioni locali, (tuttora rinvenibile nelle disposizioni del CCNL del 31.3.1999), non detta alcuna specifica disciplina per l’assegnazione del lavoratore a mansioni diverse da quelle proprie del profilo posseduto dal medesimo.
In ordine al vincolo dell’equivalenza, l’art.3, comma 2, del CCNL del 31.3.1999, dispone infatti solamente che tutte le mansioni che vengano ascritte dal contratto collettivo nazionale all’interno delle singole categorie, “in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili”.
Tale disciplina contrattuale deve oggi essere correttamente interpretata diacronicamente nel contesto dell’evoluzione della disciplina legislativa in materia, da ultimo scandita nell’articolo 52, nuovo testo, del dlgs. 165/2001 e smi. rispetto alla quale è intervenuta la Corte di Cassazione (cfr. Cass. 16/06/2009 n° 13941 e Cass. 26/01/2017 n° 2011), che ha statuito i seguenti principi interpretativi:
“3.2. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/08, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, non si applica l’art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs.n.165 del 2001, art. 52 che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/11; Cass. n. 18283/10; Cass. Sez. Un. n. 8740/08; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016). Dunque, non è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165/01 qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni. Restano, dunque, insindacabili tanto l’operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l’operazione di verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria.
3.3. Condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all’aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (cfr. Cass. n. 11835 del 2009).
3.4. Tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili e l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro”.
Ai fini della interpretazione della regola sull’equivalenza delle mansioni contenuta nell’art. 3, comma 2, del CCNL del 31.03.1999 sulla base alla ricordata esegesi giurisprudenziale dell’articolo 52, nuovo testo, del dlgs. 165/2001 e smi, si deve rilevare che la locuzione “in quanto equivalenti” ben possa essere considerata espressione di una valutazione di equivalenza di tutte le mansioni ascrivibili ad una stessa categoria aprioristicamente formulata dal contratto collettivo nazionale e perciò intesa in senso formale,  statuendo la possibilità di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle del profilo posseduto purché ascrivibili alla medesima categoria secondo la relativa declaratoria professionale come descritta nell’allegato A allo stesso CCNL nel rispetto, ovviamente, degli eventuali specifici requisiti professionali abilitanti previsti per l’esercizio dell’attività di destinazione dalla normativa vigente.
Così ricostruita la lettura interpretativa delle disposizioni del contratto collettivo nazionale di lavoro in materia di equivalenza delle mansioni, la valutazione di tale equivalenza nel caso concreto costituisce una questione di natura prettamente gestionale relativa all’esercizio del potere direttivo ed organizzativo datoriale da parte dell’Ente e che, pertanto, esula dalla competenza della scrivente Agenzia la quale, come è noto, è circoscritta dall’articolo 46, comma 1, dlgs. 165/2001 e smi, alla formulazione di orientamenti per l’uniforme applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

E’ possibile per particolari esigenze organizzative dei servizi derogare all’art. 26 del CCNL 21.5.2018 delle Funzioni Locali, prevedendo un orario di lavoro ininterrotto di ore 7,12 giornaliere, senza l’effettuazione di una pausa dopo 6 ore di lavoro?
L’art. 26 del CCNL del 21.5.2018, in coerenza con le previsioni del D.Lgs.n.66/2003, ha introdotto, a favore dei lavoratori, una pausa obbligatoria di 30 minuti, in presenza di una prestazione di lavoro giornaliera che ecceda le sei ore, qualunque sia la ragione giustificativa di tale prolungata durata dell’orario di lavoro.
Un’eventuale e limitata deroga all’obbligo della pausa, limitatamente al profilo della durata, è consentita solo nelle specifiche fattispecie considerate nell’art.13 del CCNL del 9.5.2006, nell’ambito della complessiva disciplina dei buoni pasto.
L’art.26, comma 3, per il personale che si trovi nelle condizioni previste dall’art.27, comma 4, del medesimo CCNL del 21.5.2018, come emerge dalla lettura della clausola contrattuale, consente solo di ampliare la durata della pausa in presenza delle circostanze ivi richiamate, ma non anche di ridurla.
Per completezza informativa, si ricorda che la medesima pausa non può essere neppure soppressa, ridotta o dichiarata rinunciabile dalla contrattazione integrativa (non figurando questo profilo tra le materie ad essa demandate dal CCNL) o da atti unilaterali dell’Ente (per evidente contrasto con la legge e con il contratto collettivo nazionale di lavoro).

In caso di mobilità tra Amministrazioni appartenenti a comparti diversi, il dipendente ha diritto al pagamento delle ferie non godute?
Con riferimento alla questione in oggetto la scrivente Agenzia, nel confermare i contenuti più volte espressi in precedenti orientamenti applicativi rilasciati in materia, ritiene utile evidenziare i seguenti elementi di approfondimento.
L’art. 28, comma 11 del CCNL del 21.5.2018 prevede espressamente che “le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge e delle relative disposizioni applicative”.
In base al suo inequivoco tenore letterale la disposizione consente la monetizzazione delle ferie solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Nel caso della mobilità di cui all’art. 30 del d.lgs. n.165/2001 non vi è cessazione del rapporto di lavoro con costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, ma la continuazione del precedente rapporto, con i medesimi contenuti e caratteristiche, con un nuovo datore di lavoro.
Di conseguenza, trattandosi della prosecuzione del precedente rapporto di lavoro, mentre deve ritenersi esclusa la possibilità di monetizzare le ferie maturate e non godute dal dipendente prima del trasferimento, è senz’altro possibile che egli ne fruisca presso il nuovo datore di lavoro.
Si rammenta infatti che le ferie, costituendo un diritto irrinunciabile, non sono soggette ad alcun tipo di prescrizione, ferme restando le responsabilità previste dalla normativa vigente in caso di mancata tempestiva fruizione delle stesse.

Nel caso di coniugi entrambi dipendenti della stessa Amministrazione/Ente, è possibile usufruire in due periodi diversi dei permessi retribuiti relativi all’evento matrimonio (ex art. 31, comma 2, del CCNL Funzioni Centrali)?
L’art. 31, comma 2 del CCNL comparto Funzioni Centrali (n.d.r. ma anche quello del comparto Funzioni Locali) riconosce al lavoratore un permesso di 15 gg. consecutivi “in occasione del matrimonio”, intendendo con tale locuzione che il permesso deve essere fruito in via strettamente correlata all’evento “matrimonio”, anche entro 45 giorni dalla data in cui lo stesso è stato contratto (art. 31, comma 2 del CCNL Funzioni Centrali).
Non emergono ulteriori limiti o particolari modalità di fruizione del permesso in questione.
Venendo al caso di specie, ossia come disciplinare l’eventualità che i coniugi, appartenenti alla medesima Amministrazione, richiedano di beneficiare di detto permesso in periodi diversi l’uno dall’altro, la scrivente rappresenta che tale beneficio concerne un diritto riconosciuto singolarmente al dipendente, il quale rimane libero di decidere – nel rispetto dei limiti contrattualmente previsti – se e quando avvalersene. L’Amministrazione, pertanto, non può esigere una contestuale fruizione del periodo di congedo tra i due coniugi, entrambi propri dipendenti.
Diversamente opinando, infatti, si verrebbe a creare un’evidente disparità di trattamento tra lavoratori che prestano servizio presso la stessa Amministrazione e coloro che prestano servizio in due Amministrazioni diverse (le cui scelte in ordine all’an e quando beneficiare del permesso da parte di un coniuge rimarrebbero sconosciute al datore di lavoro dell’altro).

Qual è la modalità di computo dei giorni ricadenti nel periodo di comporto ex art. 37, 1° comma del CCNL Funzioni Centrali 2016-2018, si usa il calendario comune o si computano convenzionalmente sempre 30 giorni?
Preliminarmente, si chiarisce che il dubbio interpretativo nasce dal fatto che il periodo di comporto (pari a 18 mesi), indicato dall’art. 37, 1° comma del CCNL Funzioni Centrali sottoscritto il 18/02/2018 (n.d.r. per il comparto Funzioni Locali si veda il comma 1 dell’art. 36, del CCNL stipulato il 21/05/2018), può essere calcolato anche come somma di più eventi morbosi verificatisi nel triennio. Da qui la necessità di trasformare il limite contrattuale da mesi a giorni e, conseguentemente, di comprendere se la determinazione dell’equivalente numero di giornate vada effettuata utilizzando il calendario comune (cd. Criterio nominatione dierum) ovvero, contando convenzionalmente 30gg. per ciascun mese (cd. numeratione dierum).
Ciò premesso, a parere dell’Agenzia tale periodo di 18 mesi deve essere calcolato considerando convenzionalmente 30gg. per ogni mese, con la conseguenza che il dipendente ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo non eccedente i 540gg.
A tale soluzione si perviene analizzando la volontà delle parti contrattuali. Infatti, nella tabella B allegata al “Contratto Integrativo al CCNL Comparto Ministeri del 16/02/1999” sottoscritto il 16/05/2001, vengono indicati espressamente degli esempi esplicativi di come devono essere conteggiati i mesi di malattia in relazione alle diverse retribuzioni da corrispondere, nei quali il mese viene sempre considerato di 30 giorni.
In linea più generale, infine, mediante un’interpretazione sistematica ed organica dell’intero assetto contrattuale, si può affermare che allorquando il Contratto collettivo disciplina un istituito collegato al periodo di tempo espresso in “mesi” si riferisce sempre ai mesi composti da 30gg. (ad esempio, gli istituti dei congedi, delle aspettative, il calcolo della retribuzione giornaliera, ecc…).

Come deve regolarsi il datore di lavoro pubblico nel caso in cui un proprio dipendente, che aveva precedentemente richiesto e programmato di usufruire delle proprie ferie pregresse ha, poi, manifestato la necessità di beneficiare degli ulteriori giorni di permesso retribuiti ex art. 33 della Legge n. 104/1992 aumentati per effetto della sopravvenuta normativa emergenziale di prevenzione e contrasto al COVID-19?
Preliminarmente la scrivente Agenzia rammenta che il termine indicato dall’art. 28, comma 14 del CCNL Comparto Funzioni Centrali del 12/02/2018 (come è noto, norma di miglior favore rispetto a quanto disciplinato dall’art. 10 del D. Lgs. n. 66/2003) è posto esclusivamente a tutela del lavoratore; risultando, di converso, un limite alla potestà datoriale in merito alla gestione delle ferie e, ciò, anche in ossequio del fatto che le ferie sono un diritto irrinunciabile garantito dall’art. 36 della Costituzione.
Ciò posto, dunque, non vi possono essere margini temporali ulteriori rispetto a quelli indicati dal Contratto collettivo (ossia, il 30 giugno dell’anno successivo all’anno di maturazione).
Tuttavia, non è ragionevole pensare, in un contesto di emergenza sanitaria nazionale come quello causato dalla pandemia da virus COVID-19, che il pregiudizio derivante dal mancato godimento delle ferie – anche se autorizzate e programmate dall’Amministrazione – debba ricadere sul dipendente che intende usufruire dei permessi ex Legge 104/92, che per effetto della normativa emergenziale sono stati incrementati nel loro ammontare (nello specifico, si veda l’art. 24 del D.L. n. 18/2020 e l’art. 73 del D.L. n.34/2020).
Sul punto pare opportuno, inoltre, citare l’Interpello n. 20/2016 del Ministero del Lavoro del 20/05/2016, il quale afferma il principio della prevalenza delle improcrastinabili esigenze di assistenza e di tutela del diritto del disabile sulle esigenze aziendali, nella specie sul periodo di ferie già programmate dal datore di lavoro.
Pertanto, in conclusione, alla luce delle considerazioni suesposte, si evidenzia, che i giorni di ferie residue, maturate nell’anno precedente, e non godute entro i limiti contrattuali previsti debbano, compatibilmente con le esigenze di servizio, essere fruite dal lavoratore in via strettamente ravvicinata alla fine della fruizione dei permessi ex Legge n. 104/1992, come aumentati per effetto dalla summenzionata legislazione emergenziale.
 

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