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Nuovi orientamenti applicativi Aran giugno 2024

Pubblichiamo di seguito alcuni nuovi orientamenti applicativi pubblicati quest’oggi sul sito dell’Agenzia.
Nonostante questi pareri riguardino gli enti del comparto Funzioni Centrali, le indicazioni ivi contenute appaiono di sicuro interesse anche per gli enti locali, stante l’identica formulazione letterale degli articoli di riferimento.

Come si deve interpretare il criterio stabilito nel comma 2, lett. d), n. 1) dell’articolo 14 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 09/05/2022 concernente la “media delle ultime tre valutazioni individuali annuali conseguite” relativo alle progressioni economiche all’interno delle aree?
Come è noto, il comma 1 del citato art. 14 (per il comparto Funzioni Locali si veda l’art. 14 del CCNL del 16/11/2022) precisa che i differenziali stipendiali da attribuire al dipendente in caso di progressione economica remunerano “il maggior grado di competenza professionale progressivamente acquisito dai dipendenti nello svolgimento delle funzioni proprie dell’area”. In tale ottica, quindi, l’Amministrazione deve tenere in considerazione soltanto le valutazioni relative alle prestazioni rese nella medesima area ove si concorre per l’attribuzione del differenziale stipendiale (o di area corrispondente in vigenza del precedente sistema di classificazione).
Pertanto, la locuzione utilizzata, ossia “la media delle tre ultime valutazioni individuali annuali conseguite”, non impone uno stringente criterio cronologico, ma permette all’Amministrazione di andare a ritroso nel tempo fino a ottenere tre valutazioni del personale ancorché non contigue.

Come interpretare la locuzione “arco temporale pari alla durata del periodo di prova formalmente prevista dalle amministrazioni di destinazione” entro cui il dipendente ha diritto alla conservazione del posto (cfr. comma 10 dell’articolo 19 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 09/05/2022)? Si devono tenere in considerazione gli eventi personali (come ad es. le assenze interruttive) che possono modificare la durata del periodo di prova stesso?
La norma contrattuale in parola, come è noto, è posta a tutela del lavoratore – con rapporto a tempo indeterminato – riconoscendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro presso l’Amministrazione di provenienza e, al contempo, costituendo un vincolo in capo a quest’ultima, la quale infatti non può rendere disponibile detto posto di lavoro.
Pertanto, al fine di contemperare entrambi gli interessi, ossia quello del lavoratore ad una garanzia speciale per un determinato periodo di tempo e quello dell’Amministrazione a poter riottenere la disponibilità del posto, è stato individuato un termine oggettivo indipendente dagli eventi personali che possono modificare la durata del periodo di prova. In tale ottica, la locuzione “formalmente” di cui all’art. 19 del CCNL citato (per il comparto Funzioni Locali si veda l’art. 25, comma 10, del CCNL del 16/11/2022) va intesa come la durata del periodo di prova in senso teorico e non effettivo-sostanziale, cioè la durata del periodo di prova per come prevista dalle disposizioni contrattuali.

Il diritto alla conservazione del posto di lavoro deve essere riconosciuto soltanto laddove non vi sia stata alcuna soluzione di continuità tra il servizio prestato nell’Amministrazione di destinazione (nella quale si è vinto il concorso pubblico) e quello svolto nell’Amministrazione da cui proviene il dipendente (il cui posto di lavoro è stato conservato)?
Come è noto, l’art. 19, commi 10 e 11, del CCNL comparto Funzioni Centrali del 09/05/2022 (per il comparto Funzioni Locali si vedano i commi 10 e 11 dell’art. 25 del CCNL del 16/11/2022) riconosce al dipendente, a tempo indeterminato e che abbia superato il periodo di prova, il diritto alla conservazione del posto di lavoro presso l’Amministrazione di provenienza per un periodo di tempo pari alla durata del periodo di prova formalmente prevista dalle amministrazioni di destinazione.
Nel caso in cui, entro il citato periodo, il dipendente ritenga di esercitare tale diritto si ritiene che il passaggio del dipendente dall’Amministrazione originaria verso l’Amministrazione di destinazione, e viceversa, deve avvenire senza soluzione di continuità, ossia senza alcuna interruzione – nemmeno per un singolo giorno – tra i due rapporti di lavoro.

Come deve essere calcolata la fruizione mista, sia oraria che giornaliera, dei permessi di cui alla Legge n. 104/1992 all’interno dello stesso mese?
L’istituto dei permessi di cui alla Legge n. 104/1992, come è noto, può essere fruito sia in giorni che in ore, nel limite complessivo massimo di 3 giorni o di 18 ore al mese. Tale duplice possibilità nasce dalla normativa legale – che riconosce solo ed esclusivamente l’ipotesi di fruibilità del permesso a giorni – e dalla disciplina contrattuale – che ne prevede la fruibilità ad ore. In particolare, il CCNL ha determinato il numero massimo di ore mensile applicando l’equivalenza convenzionale 1g = 6 ore.
Da ciò ne consegue che nel caso in cui il lavoratore scelga di assentarsi per l’intera giornata lavorativa esercitando il diritto di cui alla Legge n. 104/1992, l’Amministrazione deve riconoscere il beneficio in parola quale che sia la durata oraria della giornata lavorativa stabilita per quel lavoratore.
Nell’ipotesi di utilizzo nel mese sia dei permessi orari che dei permessi a giorni, si osserva che al fine di garantire il soddisfacimento della tutela principale riconosciuta dalla citata Legge (ossia, fruire di tre giorni al mese), nelle giornate in cui il lavoratore è assente per l’intera giornata dal monte ore complessivo andranno decurtate 6 ore indipendentemente dall’orario teorico di lavoro previsto per quella giornata (es. 6 ore, 7 ore e 30 minuti, 9 ore, 5 ore e 30 minuti, ecc.). Coerentemente, nelle giornate restanti in cui invece il lavoratore opti per la fruizione oraria dei permessi in parola, dal medesimo monte orario si dovranno decurtare soltanto le ore di assenza del lavoratore.
Ai fini puramente esemplificativi: da 18h/mese il lavoratore che si assenta per sole 4 ore ottiene come residuo 14 ore (18-4=14 ore); se il lavoratore si assenta per un’intera giornata il suo monte-ore residuo sarà di 8 (14-6=8 ore), e così via.

Con riferimento ai permessi di cui alla Legge n. 104/1992, come deve computarsi la fruizione oraria di detti permessi nel caso di dipendente con rapporto di lavoro part-time orizzontale, con prestazione lavorativa superiore al 50%, e con un orario giornaliero di 5,30 ore?
Come è noto, i permessi di cui alla Legge n. 104/1992 possono essere fruiti sia in giorni che in ore, nel limite complessivo massimo di 3 giorni o di 18 ore al mese. Tale duplice possibilità nasce dalla normativa legale – che riconosce solo ed esclusivamente l’ipotesi di fruibilità del permesso a giorni – e dalla disciplina contrattuale, che ne prevede invece la fruibilità ad ore. In particolare, il CCNL ha determinato il numero massimo di ore mensile applicando l’equivalenza convenzionale 1g = 6 ore, ciò comporta che nelle giornate in cui il lavoratore è assente per l’intera giornata, l’amministrazione dovrà decurtare dal monte ore complessivo 6 ore indipendentemente dall’orario teorico di lavoro previsto per quella giornata (es. 6 ore, 7 ore e 30 minuti, 9 ore, 5 ore e 30 minuti, ecc…).
Con riguardo al lavoratore in part-time, il CCNL del comparto Funzioni Centrali del 09/05/2022, all’art. 33, comma 9 (per il comparto Funzioni Locali si veda il comma 9 dell’art. 62 del CCNL del 16/11/2022), uniformandosi alla giurisprudenza sulla materia, ha previsto che il criterio di riproporzionamento opera solo nel caso in cui l’orario teorico in part-time è pari o inferiore al 50% di quello previsto per il personale a tempo pieno.
Nel caso in esame, dunque, si dovrà riconoscere per intero il beneficio, ricordandosi di operare la decurtazione oraria pari a 6 ore (e non 5,30 ore) nel caso in cui il lavoratore fruisca del permesso ex Legge n. 104/1992 per l’intera giornata.

La fruizione dei permessi studio di cui all’art. 46 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 12/02/2018 (per il comparto Funzioni Locali si veda l’art. 46 del CCNL del 16/11/2022) è subordinata all’effettivo conseguimento del titolo di studio in costanza di servizio? In caso positivo, è possibile applicare la clausola di conversione dei permessi in aspettativa per motivi personali, sancita nel comma 9 dell’art. 46 citato?
L’istituto dei permessi per il diritto allo studio ha come finalità quella di consentire ai lavoratori di proseguire il loro percorso di studio acquisendo un titolo di studio ulteriore rispetto a quello posseduto. La ratio sottesa a tale istituto contrattuale è quella di permettere al personale dipendente di partecipare a detti corsi “per il conseguimento” dei rispettivi titoli di studio. E tuttavia, la disciplina contrattuale in esame non richiede, ai fini della concessione dei permessi di studio, l’ottenimento del titolo finale da parte del lavoratore, ma ritiene sufficienti il certificato di iscrizione, l’attestato di partecipazione ai corsi e la certificazione degli “esami sostenuti, anche se con esito negativo” (cfr. comma 9 dell’art. 46).
Pertanto, il lavoratore è tenuto a fornire all’amministrazione tutta la documentazione prevista dal citato articolo 46, inclusa la certificazione degli esami sostenuti anche se gli stessi vengono effettuati dopo la conclusione del rapporto di lavoro. Solo nel caso in cui il lavoratore non adempia a tutte le sue obbligazioni (frequenza, sostenimento degli esami, ecc.) l’amministrazione può trasformare le giornate di permesso in aspettativa per motivi personali atteso che, la mancanza delle certificazioni richieste, è sanzionata dal contratto collettivo con l’automatica conversione dei permessi studio in aspettativa per motivi personali (cfr. infatti, la locuzione “[in] mancanza delle predette certificazioni”).
Riassumendo, quindi, si evidenzia che i permessi di studio di cui all’art. 46 citato sono concedibili ai dipendenti entro i limiti di cui al comma 9 dello stesso, indipendentemente dunque dal conseguimento concreto del titolo di studio in vigenza o meno del rapporto di lavoro. Quest’ultimo è certamente il fine auspicale e legittimo, ma non essendo stato elevato a rango di requisito necessario e condizionante la concessione dei permessi la sua assenza non consente all’amministrazione di convertire i permessi in aspettativa per motivi personali.

La modifica dell’art. 34 del D. Lgs. 151/2001 ad opera della legge di Bilancio 2024 che eleva l’importo dell’indennità riconosciuta al lavoratore che fruisce dei congedi parentali è posta in alternativa o si aggiunge a quella dettata dalla disciplina contrattuale di cui all’art. 28 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 09/05/2022?
Come è noto, l’art. 1 comma 179 della legge 213/2023 modifica l’art. 34 del D. Lgs. 151/2001 stabilisce, al comma 1, che “a ciascun genitore lavoratore spetta per tre mesi, non trasferibili, un’indennità pari al 30 per cento della retribuzione, elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima complessiva di due mesi fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell’80 per cento della retribuzione nel limite massimo di un mese e alla misura del 60 per cento della retribuzione nel limite massimo di un ulteriore mese, elevata all’80 per cento per il solo anno 2024”.
La norma legislativa sopra indicata va correlata con la disciplina contrattuale di maggior favore contenuta nella disposizione di cui all’articolo 28 del citato CCNL (per il comparto Funzioni Locali si veda l’art. 45 del CCNL del 16/11/2022), che prevede che “nell’ambito del congedo parentale previsto per ciascun figlio dall’art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001, per le lavoratrici madri o in alternativa per i lavoratori padri, i primi trenta giorni, computati complessivamente per entrambi i genitori e fruibili anche frazionatamente, … sono retribuiti per intero”.
Pertanto, ove sussistano le condizioni sopra richiamate, le amministrazioni dovranno riconoscere la retribuzione per intero per i primi 30 giorni nonché l’indennità pari all’80% della retribuzione nell’anno 2024 (ridotta al 60% negli anni successivi) per il secondo mese di congedo fruito entro il sesto anno di vita del figlio. Si evidenzia tuttavia che il riconoscimento di detta maggiorazione dell’indennità è subordinato al rispetto dei requisiti richiesti dal legislatore, il quale specifica che si dovrà fare riferimento soltanto ai lavoratori che terminano, dopo il 31 dicembre 2023, il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità disciplinati, rispettivamente, nel Capo III e nel Capo IV del citato D. Lgs. n. 151 del 2001.

È possibile applicare l’istituto della reperibilità di cui all’art. 20 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 12/02/2018 in caso di lavoro a distanza?
Ai fini di maggior chiarezza, preliminarmente, si evidenzia che il lavoro a distanza disciplinato nel Titolo V del CCNL comparto Funzioni Centrali del 09/05/2022 (per il comparto Funzioni Locali si veda il Titolo VI del CCNL del 16/11/2022) si articola in due tipologie: lavoro agile e lavoro da remoto. La prima tipologia, il lavoro agile, è caratterizzata dall’assenza di precisi vincoli di orario e di luogo (cfr. comma 2 dell’art. 36 del CCNL ultimo citato). Tale peculiarità, pertanto, fa escludere l’applicazione di quegli istituti contrattuali che necessitano di una misurazione esatta dell’orario di lavoro prestato o dell’effettuazione della prestazione lavorativa in un preciso momento (cfr. comma 3 del citato articolo 36). Sotto tale profilo, ad esempio, il CCNL prevede che il lavoratore non può “effettuare lavoro straordinario, trasferte, lavoro disagiato e lavoro svolto in condizioni di rischio” (cfr. art. 39, comma 3).
Conseguentemente, il lavoro agile non può considerarsi compatibile con tutte quelle attività che devono essere svolte in un preciso arco temporale prestabilito e che necessitano di essere quantificate in minuiti/ore ai fini della loro remunerazione, come avviene nel caso del richiamo al lavoro del dipendente in reperibilità.
Viceversa, il lavoro da remoto, previsto nell’art. 41 del CCNL citato, si configura come quella specifica modalità di lavoro “a distanza” che può essere prestata “anche con vincolo di tempo e nel rispetto dei conseguenti obblighi di presenza derivanti dalla disposizioni in materia di orario di lavoro” (cfr. il comma 1). Questa seconda ipotesi di lavoro a distanza, pertanto, risulta compatibile con l’istituto della reperibilità giacché, in tal caso, è possibile richiedere che la prestazione lavorativa venga svolta in un preciso orario nonché quantificare l’esatta durata della prestazione lavorativa effettuata dal dipendente.