Con la recente sentenza n. 14790 del 10 luglio 2020, la Suprema Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “Non costituisce comportamento discriminatorio la previsione, in sede di bando di concorso riservato alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999, del requisito della sussistenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell’assunzione trattandosi di previsione avente la finalità di tutelare, in conformità con II dettato legislativo e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE, il disabile disoccupato rispetto ad altro soggetto, egualmente disabile ma nelle more fuoriuscito dalla categoria dei disoccupati“.
I Giudici hanno infatti ricordato quanto affermato in proposito dalla Corte cost. nella sentenza n. 190 del 2006, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8-bis del d.l. 28 maggio 2004, n. 136 (Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, dalla I. 27 luglio 2004, n. 186, nella parte in cui si riferisce alle procedure per il conferimento degli incarichi di presidenza ed altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale della parte residua dello stesso art. 8-bis. In tale decisione il giudice delle leggi, dopo aver evidenziato che le quote di riserva nelle assunzioni presso le pubbliche amministrazioni postulano necessariamente lo stato di disoccupazione del soggetto interessato, anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 68 del 1999, essendo solo consentito (art. 16 cit.) alle amministrazioni di prescindere dallo stato di disoccupazione qualora ritengano di saturare l’aliquota da riservare agli invalidi, anche in deroga al limite percentuale dei posti riservati nei concorsi pubblici ha ritenuto che la «legge ordinaria che, oltre a favorire l’accesso dei disabili al lavoro, ne agevola la carriera, produce una irragionevole compressione dei principi dell’eguaglianza e del merito, a danno dell’efficienza e del buon andamento della pubblica amministrazione».
In tale decisione la Corte costituzionale, dopo aver posto in rilievo i principali atti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, che dispongono il divieto di discriminazioni nell’accesso all’impiego ha richiamato precedenti sue sentenze quali la n. 622 del 1987 (secondo la quale la legge «è intesa a favorire le aspirazioni di coloro che al lavoro debbano ancora attingere in via primaria» e gli enunciati dell’art. 38 Cost. «concernono l’approntamento dei mezzi per l’inserimento dei disabili nel contesto sociale»), la n. 55 del 1961 e la n. 38 del 1960 (secondo cui la locuzione «avviamento professionale» di cui al citato art. 38 Cost. «non può essere intesa quale sinonimo di “educazione”», ma, piuttosto, «a integrazione di questa, prescrive il compito ultimo per rendere operante il disposto di cui al terzo comma dell’art. 38 cit., compito che si sostanzia e realizza nell’effettivo collocamento al lavoro»).
E’ pur vero che tale pronuncia è Intervenuta prima che la Corte di Giustizia, nella decisione del 4 luglio 2013, in causa C – 312/11 sanzionasse l’Italia valorizzando, nel contesto motivazionale, non solo l’aspetto dell’accesso al lavoro ma anche quello della “promozione” e cioè della progressione o avanzamento professionale, di tal che la tutela dell’invalido non si esaurisce nel garantire allo stesso il primo accesso nel mondo del lavoro, tuttavia il principio affermato resta certamente attuale in una vicenda quale quella che ci occupa in cui, ragionando esclusivamente in termini di discriminazione, non può essere disconosciuto che una tutela incondizionata del disabile già occupato comprimerebbe quella del disabile disoccupato superando così quell’adeguato livello di tutela imposto dal rispetto dei canoni di solidarietà che devono ispirare la legislazione sodale, specialmente In materia di impiego pubblico.