Nella giornata di oggi le Commissioni riunite Affari costituzionali e Bilancio del Senato hanno concluso l’esame, in sede referente, del ddl n. 452, di conversione in legge del decreto-legge 29 dicembre 2022, n. 198, recante disposizioni urgenti in materia di termini legislativi (c.d. Milleproroghe).
Tra gli emendamenti approvati negli ultimi giorni, ve ne è uno di particolare interesse per gli enti locali (l’1.73 testo 2) con il quale si chiarisce che il contributo statale per l’aumento delle indennità di sindaci e amministratori spetta anche agli enti che in passato hanno deliberato la rinuncia totale o parziale alla misura massima dei compensi.
Questo il testo dell’emendamento:
“20-bis. Fino al 31 dicembre 2023, le risorse ripartite ai sensi dell’articolo 1, commi 586 e 587, della Legge 30 dicembre 2021, n. 234, sono riconosciute ai comuni beneficiari anche nel caso in cui gli stessi abbiano adottato e approvato specifiche deliberazioni di rinuncia, parziale o totale, della misura massima dell’indennità di funzione prevista dalla normativa al tempo vigente, a condizione che tali risorse siano state utilizzate per tali finalità”.
La modifica in questione, tuttavia, non elimina del tutto i dubbi interpretativi connessi al tema in oggetto.
Non è chiaro, infatti, quale significato si debba attribuire all’inciso “a condizione che tali risorse siano state utilizzate per tali finalità”. È sufficiente che l’ente abbia utilizzato queste risorse per incrementare le indennità di funzione dei propri amministratori o è invece indispensabile che le risorse stesse siano state impiegate dall’ente esclusivamente per far fronte all’incremento delle indennità di funzione previsto dai commi da 583 a 587 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2021, n. 234?
La differenza non è di poco conto.
Un esempio numerico può aiutare a capire meglio la situazione.
Si ipotizzi il caso di un Comune con una popolazione di 5.600 abitanti.
Prima dell’entrata in vigore della legge di bilancio 2022, al Sindaco di questo Comune poteva essere erogata un’indennità massima mensile (tralasciando le eventuali maggiorazioni) pari ad € 2.509,98, per un costo complessivo annuo (comprensivo anche del rateo di fine mandato) di € 32.629,74.
Supponiamo però che in passato il Comune in questione avesse deliberato una riduzione dell’ammontare dell’indennità del Sindaco ad € 1.600,00 mensili, che corrispondono ad un costo complessivo annuo (comprensivo anche del rateo di fine mandato) di € 20.800,00.
Orbene, il contributo assegnato dallo Stato a questo Comune per finanziare l’incremento dell’indennità del Sindaco in applicazione dei commi 583 e seguenti della legge 234 del 2021 ammontava, nell’anno 2022, ad € 8.696,55.
La domanda da porsi a questo punto è: laddove il Comune abbia deciso l’anno scorso di integrare il compenso annuo del Sindaco in misura esattamente pari all’ammontare del contributo ricevuto (portandolo così ad € 29.496,55 annui), quest’ultimo dovrà restituire qualcosa allo Stato oppure no?
Tutto dipende da come verrà interpretata la norma.
Se è sufficiente aver destinato queste risorse all’incremento dell’indennità di funzione del Sindaco, anche partendo da un valore significativamente più basso di quello edittale (compenso previsto dalla Tabella A del D.M. 4 aprile 2000, n. 119, ridotto del 10% in ossequio all’art. 1, comma 54, della legge finanziaria n. 266/2005), allora l’Ente non dovrà restituire nulla.
Viceversa, se è indispensabile che queste risorse siano state impiegate dall’ente esclusivamente per far fronte all’incremento delle indennità di funzione previsto dai commi da 583 a 587 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2021, n. 234, allora il Comune dovrà rimborsare allo Stato l’intero importo del contributo ricevuto; questo perché l’incremento dell’indennità del Sindaco deliberato ora dall’Ente non consente neppure di raggiungere la misura piena dell’indennità prevista dalla normativa previgente (pari appunto ad € 32.629,74).