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Lo svolgimento di altra attività lavorativa o extralavorativa durante la malattia non provoca di per sé la compromissione della guarigione

Con la recente sentenza n. 13063 del 26 aprile 2022, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema della responsabilità disciplinare del dipendente che, durante lo stato di malattia, si dedica ad attività idonee a ritardare o a pregiudicare il pieno recupero psicofisico.

In materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività – lavorativa ma anche extralavorativa – durante l’assenza per malattia del dipendente, afferma la Cassazione, taluni princìpi espressi da questa Corte possono dirsi consolidati. 

A partire dalla risalente affermazione che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia, sicché ciò non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera (ab imo, Cass. n. 2244 del 1976, con un postulato mai smentito dalla giurisprudenza successiva; tra molte: Cass. n. 1361 del 1981; Cass. n. 2585 del 1987; Cass. n. 381 del 1988; Cass. n. 5833 del 1994; Cass. n. 15621del 2001; più di recente, v. Cass. n. 6047 del 2018, la quale osserva che il lavoratore assente per malattia “non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona”).

L’assunto trova fondamento nella nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa e che ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria – incapacità al lavoro del medesimo (cfr., tra tutte, n. 14065 del 1999), per cui, anche laddove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.

Tuttavia, la stessa giurisprudenza prima citata ha, da subito, precisato che il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia non è circostanza disciplinarmente irrilevante ma può anche giustificare la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifichi obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.

Tale principio può dirsi consolidato nel diritto vivente (tra molte: Cass. n. 1747 del 1991; Cass. n. 9474 del 2009; Cass. n. 21253 del 2012; Cass. n. 17625 del 2014; Cass., n. 24812 del 2016; Cass. n. 21667 del2017; Cass. n. 13980 del 2020).

Invero, durante il periodo di sospensione del rapporto determinato dalla malattia permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non inerenti allo svolgimento della prestazione; tra gli altri, anche gli obblighi di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., oltre che gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. (cfr. Cass. n. 7915 del 1991).

Complesso di obbligazioni che riverbera i suoi effetti anche sulle condotte non direttamente concernenti l’adempimento della prestazione lavorativa ma che devono essere ispirate all’esigenza di salvaguardare l’interesse creditorio del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione dovuta.

È stato evidenziato, infatti, che l’art. 2110 c.c., in deroga ai principi generali, riversa entro certi limiti sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa dovuta a infermità (Cass. n. 10706 del 2008; Cass. n. 14046 del 2005; Cass. n. 15916 del 2000). Ne consegue che tale deroga deve essere armonizzata con i princìpi di correttezza e buona fede che devono presiedere all’esecuzione del contratto, i quali assumono rilevanza non solo sotto il profilo del comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione ma anche sotto il profilo delle modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi (Cass. n. 9141 del 2004), imponendo a ciascuna di esse il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (cfr. Cass. n. 14726 del 2002; secondo Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008, nell’osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede le parti del rapporto obbligatorio hanno il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra; per una recente applicazione del principio v. Cass. n. 6497 del 2021). 

Pertanto si è affermato che il lavoratore deve comunque astenersi da comportamenti che possano ledere l’interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione dell’obbligazione principale dedotta in contratto, argomentando che la mancata prestazione lavorativa in conseguenza dello stato di malattia del dipendente in tanto trova tutela nelle  disposizioni contrattuali e codicistiche in quanto non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore medesimo che operi scelte idonee a pregiudicare l’interesse datoriale a ricevere regolarmente detta prestazione (per tutte, v. Cass. n. 1699 del 2011).

In tale prospettiva assume peculiare rilievo l’eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell’ambito dei più generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l’adempimento dell’obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia.

La Sezione, poi, a corredo del principio cardine enunciato dalla giurisprudenza di legittimità consolidata, ha richiamato anche altri arresti giurisprudenziali che fungono da corollario.

Innanzitutto è persuasivo l’assunto per il quale la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza sulla guarigione dell’altra attività accertata, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge un’altra attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in questo modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, riferito al momento in cui il comportamento contestato si è tenuto ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio, con la conseguenza che, ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante  (per tutte, v. Cass. n. 14046 del 2005; conf., Cass. n. 24812 del 2016; Cass., n. 21667 del 2017; Cass. n. 3655 del 2019; Cass. n. 9647 del 2021; secondo Cass. n. 16465 del 2015 lo svolgimento di attività in periodo di assenza dal lavoro per malattia, costituisce illecito di pericolo e non di danno, il quale sussiste non soltanto se quell’attività abbia effettivamente provocato un’impossibilità temporanea di ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia stata posta in pericolo, ossia quando il lavoratore si sia comportato in modo imprudente; in proposito v. pure Cass. n. 27104 del 2006).

Ovviamente la valutazione di tipo prognostico circa l’idoneità della condotta contestata, indice di scarsa attenzione del lavoratore per la propria salute e per i relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, a pregiudicare, anche solo potenzialmente, il rientro in servizio non potrà che essere effettuata ex post in giudizio, eventualmente con l’ausilio di una consulenza di tipo medico-legale (cfr. Cass. n. 4237 del 2015).

In secondo luogo, è incontrastata da lungo tempo la constatazione che l’accertamento in ordine alla sussistenza o meno dell’inadempienza idonea a legittimare il licenziamento, sia essa la fraudolenta simulazione della malattia ovvero l’idoneità della diversa attività contestata a  pregiudicare il recupero delle normali energie psico fisiche, si risolve in un giudizio di fatto, che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimità (ad ex., Cass. n. 3142 del 1983; Cass. n. 2585 del 1987; più di recente, ex multis, Cass. n. 17625 del 2014; Cass. n. 21667 del 2017).

Tutto ciò precisato, la Cassazione ritiene che la prova dell’incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare resti comunque a carico del datore di lavoro (Cass. n. 6375 del 2011; Cass. n. 15476 del 2012; Cass. n. 4869 del 2014; Cass. n. 1173 del 2018; Cass. n. 13980 del 2020).

Tags: Malattia, Recupero psicofisico, Sanzioni disciplinari