Con la recente sentenza n. 23419 del 1° agosto 2023, la Sezione Lavoro della Cassazione ha ritenuto corretta la decisione del giudice dell’appello di applicare il termine di prescrizione decennale al diritto della pubblica amministrazione a ripetere le retribuzioni corrisposte indebitamente. L’imprescrittibilità dei diritti indisponibili sancita dell’art. 2934, comma 2, cod. civ., si traduce infatti nell’impossibilità della perdita totale del diritto in ragione del suo mancato esercizio, mentre resta soggetto alla prescrizione ordinaria il credito pecuniario per la restituzione delle singole mensilità corrisposte senza titolo. L’applicabilità del termine quinquennale di cui all’art. 2948 cod. civ., alla quale si appella con il primo motivo la ricorrente incidentale, è stata già esclusa da questa Corte (Cass., 5 novembre 2019, n. 28436), giacché l’unica fattispecie regolata dall’art. 2948 cod. civ. n. 4 è quella in cui la cadenza periodica del credito sia prevista ex ante, in relazione al titolo dell’obbligazione.
Il momento di decorrenza del termine decennale di prescrizione, hanno poi precisato i giudici, coincide nel caso di specie con il momento stesso del pagamento, ab origine soggetto a ripetizione in quanto privo di titolo (per la nullità degli atti di costituzione del fondo).
A giudizio della Sezione deve inoltre escludersi l’illegittimità del recupero per mancanza della comunicazione di avvio del procedimento (artt. 7, 8, l. n. 241/1990).
Il recupero da parte del datore di lavoro pubblico delle retribuzioni corrisposte indebitamente è infatti atto di natura privatistica riconducibile alla disciplina della ripetizione di indebito di cui all’art. 2033 cod. civ. e non costituisce atto di esercizio di potestà amministrativa con conseguente inapplicabilità della disciplina che prescrive i presupposti per l’esercizio dei poteri di autotutela di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241/1990.
Peraltro, già la giurisprudenza amministrativa ha da tempo affermato la natura doverosa della ripetizione (ad esempio, Consiglio di Stato, sezione III, 9 giugno 2014, n. 2903) atteso che la percezione di emolumenti non dovuti impone all’Amministrazione l’esercizio del diritto-dovere di ripetere le relative somme in applicazione dell’art. 2033 cod. civ.
In tal caso, infatti, l’interesse pubblico è in re ipsa e non richiede neppure specifica motivazione in quanto, a prescindere dal tempo trascorso, l’atto oggetto di recupero produce di per sé un danno per l’Amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo, ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente (cfr. Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8; Consiglio Stato, sez. VI, 14 luglio 2011, n. 4284; Consiglio Stato, sez. VI, 27 novembre 2002, n. 6500).
È stato anche affermato, prima ancora della decisione della Corte cost. n. 8 del 2023, che, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., è diritto-dovere della Pubblica Amministrazione ripetere somme indebitamente erogate; di conseguenza, l’affidamento del dipendente e la sua buona fede nella percezione non sono di ostacolo all’esercizio di tale diritto-dovere (cfr. già Consiglio di Stato, Sez. III, 28 novembre 2011, n. 6278; Sez. IV, 20 settembre 2012, n. 5043; si veda anche Cass. 20 febbraio 2017, n. 4323).
Pertanto, la P.A. non ha alcuna discrezionalità al riguardo, tanto che il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate configura danno erariale, con il solo temperamento costituito, come detto, dalla regola per cui le modalità dello stesso non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle esigenze di vita del debitore ed alle connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie, avuto riguardo alla natura degli importi richiesti in restituzione, alle cause dell’errore nell’erogazione, al lasso di tempo trascorso tra la stessa e l’emanazione del provvedimento di recupero, all’entità delle somme corrisposte, riferita alle singole mensilità e nel totale determinato dalla relativa sommatoria (v., in tal senso, Consiglio di Stato, sez. V, 13 aprile 2012, n. 2118; id. 15 ottobre 2003, n. 6291).
Da ultimo, l’ordinanza ricorda che il Giudice delle leggi (con la già citata sentenza n. 8 del 2023) ha già escluso l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ. nella parte in cui ha omesso di prevedere l’irripetibilità dell’indebito retributivo e previdenziale non pensionistico laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell’ente erogatore abbia ingenerato nel percettore un legittimo affidamento circa la loro spettanza.
Invero, la Corte ha evidenziato che l’ordinamento nazionale delinea un quadro di tutele dell’affidamento legittimo nella spettanza di una prestazione indebita che, se adeguatamente valorizzato, non determina l’illegittimità costituzionale dell’art. 2033 cod. civ.
Tali tutele si fondano sulla categoria della inesigibilità, radicata nella clausola generale di cui all’art. 1175 cod. civ. che vincola il creditore a esercitare la sua pretesa in maniera da tenere in debita considerazione, in rapporto alle circostanze concrete, la sfera di interessi del debitore.
Tra i rimedi che l’ordinamento appronta a tutela del legittimo affidamento, la Corte ha richiamato:
– il dovere del creditore di rateizzare la somma richiesta in restituzione, tenendo conto delle condizioni economico-patrimoniali in cui versa l’obbligato, che si trova a dover restituire ciò che riteneva di aver legittimamente ricevuto;
– l’inesigibilità temporanea o parziale della prestazione in presenza di particolari condizioni personali del debitore, correlate a diritti inviolabili, che attenua la rigidità dell’obbligazione restitutoria dell’indebito e funge da causa esimente del debitore quando l’esercizio della pretesa creditoria, entrando in conflitto con un interesse di valore preminente, si traduce in un abuso del diritto.
Infine, la Corte ha rilevato come la sproporzione dell’interferenza nell’affidamento legittimo sia esclusa dalla possibilità riconosciuta al soggetto percettore di accedere alla tutela risarcitoria nei confronti dell’ente a cui sia imputabile l’indebita erogazione della prestazione, in presenza dei presupposti per farne valere una responsabilità precontrattuale; in tal modo l’ordinamento nazionale consente di addebitare all’ente pubblico la responsabilità per la commissione dell’errore nell’erogazione della prestazione indebita.