Come noto, la disciplina normativa di riferimento subordina il diritto del dipendente pubblico al rimborso delle spese legali sostenute sia all’accertamento dell’assenza di responsabilità che alla connessione dei fatti con l’espletamento del servizio e dei compiti d’ufficio.
Da tempo la Cassazione ha evidenziato che detta connessione presuppone l’esistenza del nesso causale fra la funzione esercitata ed il fatto contestato e va, di conseguenza, esclusa nell’ipotesi in cui la prima sia stata solo occasione per la commissione del fatto stesso (cfr. fra le tante Cass. n. 41999/2021, Cass. n. 24461/2020, Cass. n. 2475/2029 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione).
Secondo il richiamato orientamento, fatto proprio anche dalla Corte Costituzionale in quanto diritto vivente (cfr. Corte Cost. n. 267 del 2020 che al punto 10 richiama Cass. n. 28597/2018 e C.d.S. n. 5655/2020), la connessione dei fatti e degli atti con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti devono essere riconducibili all’attività funzionale del soggetto che pretende il rimborso, in un rapporto stretta dipendenza con l’adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all’esercizio diligente della pubblica funzione. Occorre, inoltre, un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto, nel senso che il funzionario non avrebbe assolto ai suoi compiti se non tenendo quella condotta o adottando quell’atto.
La ratio del diritto al rimborso delle spese legali, infatti, va ravvisata nella finalità di imputare al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto e, pertanto, non è sufficiente che il dipendente sia stato chiamato a rispondere di un reato proprio del pubblico ufficiale, dal quale sia stato poi assolto, essendo, invece, necessario anche che la condotta sia stata tenuta in adempimento di un dovere d’ufficio e, quindi, nell’interesse dell’amministrazione di appartenenza.
Corollario del principio è che la necessaria connessione con l’espletamento del servizio va esclusa qualora la condotta di reato ascritta all’imputato configuri una fattispecie ontologicamente in conflitto con i doveri d’ufficio, perché in tal caso viene meno la strumentalità fra il fatto e l’attività lavorativa, che costituisce solo una mera occasione per il compimento dell’illecito.
Il conflitto di interessi fra il dipendente pubblico e l’amministrazione di appartenenza, che va apprezzato ex ante a prescindere dall’esito dell’azione penale (cfr. Cass. n. 4539/2022 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), esclude alla radice il diritto al rimborso, perché fa venir meno la connessione, intesa nei termini sopra indicati, fra fatto ascritto e funzione pubblica esercitata, sicché è per tale ragione che le parti collettive hanno dettato una disciplina dell’istituto incentrata sulla previa valutazione da parte dell’ente di un interesse comune alla difesa.
È quanto affermato dalla Sezione Lavoro della Cassazione nella recente sentenza n. 22815/2023.