Con l’ordinanza n. 3822 del 12 febbraio 2024, la Sezione Lavoro della Cassazione ha ribadito che, nell’accertamento del mobbing, «l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto …; a tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata» (Cass. n. 26684/2017). In altri termini, così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l’intento vessatorio. Quella che non può mancare è la valutazione complessiva della pluralità di fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell’elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più ardua dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all’isolamento del lavoratore.
Ad ogni modo, precisa la Corte, anche nel caso in cui dovesse essere confermata l’assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute della ricorrente.
Infatti, «è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ,… lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civ.» (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016).
Invero, come precisato dalla stessa Sezione Lavoro nell’ordinanza n. 3791 del 12 febbraio 2024, l’art. 2087 c.c. non prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro per i danni subiti dal lavoratore a causa dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma lo onera della prova di avere adottato «le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (v. Cass. nn. 24804/2023, 34968/2022, 33239/2022, 29909/2021, 14192/2012, 4184/2006).