Il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, può determinare un pregiudizio sulla vita professionale e personale dell’interessato, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa.
È quanto affermato dalla Sezione Lavoro della Cassazione nell’ordinanza n. 22161 del 6 agosto 2024.
Già in passato, infatti, la Cassazione ha avuto modo di rilevare che l’art. 2087 cod. civ. costituisce fonte di un obbligo in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004 […]”. Accordo sottoscritto dalle parti sociali a livello comunitario sullo “stress da lavoro”, definito come uno “stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali” che, in caso di “esposizione prolungata”, può “causare problemi di salute” (par. 3) e che, pertanto, investe la “responsabilità dei datori di lavoro […] obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori” (par. 5) – v. ex plurimis Cass. 15 novembre 2022, n. 33639.
In questa prospettiva di progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori si alimenta l’obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro.
Non vi è dubbio, allora, che il datore sia tenuto ad evitare la prolungata esposizione del lavoratore ad un clima conflittuale, per evitare lo stress da lavoro causa di malattie.