Sta facendo molto discutere in questi ultimi giorni l’ordinanza del Tribunale di Belluno che ha confermato la liceità della decisione assunta da una RSA di collocare in ferie d’ufficio alcuni dipendenti che si sono rifiutati di ricevere il vaccino anti-Covid.
Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni organi di stampa, dunque, la pronuncia in esame non ha affatto confermato un provvedimento datoriale di sospensione dal lavoro senza stipendio.
Il punto su cui poggia la suddetta ordinanza è il dovere di sicurezza del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, previsto dall’articolo 2087 del Codice civile. Si osserva nel provvedimento come sia notorio che il vaccino, «prevenendo l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus SARS -CoV-2», costituisca «misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui ai quali è somministrato, prevenendo l’evoluzione della malattia».
Considerato quindi che i lavoratori ricorrenti «sono impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro», con il connesso rischio di essere contagiati, il Tribunale ritiene che la loro permanenza in servizio comporterebbe per il datore la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c., il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti.
Pertanto, secondo il Tribunale di Belluno, il datore di lavoro, nell’inibire l’accesso dei dipendenti che, pur potendolo fare, non si sono vaccinati, ha agito nell’adempimento di un proprio dovere.
Sta di fatto, comunque, che l’assenza di una specifica disciplina legislativa sul punto, rischia di generare notevoli contenziosi con i lavoratori.
Secondo la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro (si v. l’approfondimento pubblicato in data 22 marzo), premettendo che il datore di lavoro non può essere informato in merito a dati personali e particolari (ex sensibili) inerenti la sfera sanitaria del lavoratore, il rifiuto del lavoratore di vaccinarsi può avere come conseguenza la sottoposizione del lavoratore stesso alla visita medica per la verifica dell’idoneità, da parte del medico competente, in base al protocollo sanitario relativo alla specifica mansione.
Ove il medico attesti la temporanea inidoneità alla mansione il datore di lavoro deve in alternativa valutare se l’attività svolta dal lavoratore possa essere gestita in modalità smart working oppure se il lavoratore possa essere adibito ad altre mansioni per le quali non si renda necessaria l’idoneità lavorativa.
Nel caso ciò non possa avvenire, sempre compatibilmente con le prescrizioni del medico competente, si potrebbe ipotizzare lo spostamento temporaneo del lavoratore ad altra unità lavorativa se, da elaborazione DVR Covid, risultasse un’esposizione-prossimità-aggregazione con valori inferiori rispetto alla sede di origine del lavoratore. Nel caso in cui non vi siano alternative rispetto alle ipotesi sopra descritte, si potrebbe procedere con la sospensione del lavoratore.
Al riguardo, conclude l’approfondimento, è giusto precisare che solo in extrema ratio il datore di lavoro può procedere con la sospensione del lavoratore quale misura estrema di tutela della salute dello stesso. In questo caso il datore di lavoro non sarebbe tenuto a corrispondere la retribuzione. L’orientamento giurisprudenziale maggioritario sostiene infatti che il datore di lavoro non sia tenuto al pagamento della retribuzione qualora le prestazioni lavorative non vengano prestate per divieto derivante dalle prescrizioni del medico competente (cfr. Tribunale di Verona, Sent. n. 6750/2015; Cass., n. 7619/1995).