Con sentenza n. 200 del 6 novembre 2023, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2-bis, anche in combinato disposto con il comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, sollevate dal Tribunale ordinario di Lucca e dal Tribunale ordinario di Siena (in funzione di giudice del lavoro) in riferimento agli artt. 3, 36, 77 e 97 della Costituzione, nonché ai principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento.
Quest’ultima disposizione, lo ricordiamo, limita il riconoscimento dei diritti di rogito ai soli segretari operanti in comuni senza dirigenza o comunque privi di qualifica dirigenziale.
Orbene, secondo i Giudici, la scelta di eliminare la corresponsione dei diritti di rogito sottende una riconsiderazione – coerente, peraltro, con la logica di razionalizzazione e di riordino della spesa per il personale pubblico che permea l’intero provvedimento normativo in cui si colloca la norma censurata – dello stesso presupposto dal quale i rimettenti traggono la lesione dell’art. 36 Cost., ossia della necessità di remunerare la funzione rogante con un autonomo compenso.
Con la soppressione di tale trattamento aggiuntivo, il legislatore ha, infatti, raccordato la disciplina della retribuzione dei segretari ai quali è assicurato l’allineamento economico alle posizioni apicali con il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, consacrato nell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 e nell’art. 60 del CCNL 17 dicembre 2020, e, più in generale, con i canoni della evidenza, della certezza e della prevedibilità della spesa per il personale, espressi dall’art. 8, comma 1, del citato testo unico.
Occorre, infatti, considerare che, in forza del principio di onnicomprensività, il trattamento economico determinato dai contratti collettivi remunera tutte le funzioni e i compiti assegnati al dirigente pubblico ed esclude di attribuire compensi aggiuntivi per lo svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili ai doveri istituzionali dello stesso o di compiti rientranti nelle mansioni dell’ufficio ricoperto e nelle connesse responsabilità (ex aliis, Consiglio di Stato, sezione quinta, decisione 2 ottobre 2002, n. 5163).
Tale regola è posta «a garanzia del preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza pubblica» (Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenza 5 ottobre 2010, n. 615).
Trattandosi, quindi, di un principio generale della disciplina del lavoro pubblico (Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenza 14 maggio 2013, n. 762), eventuali deroghe, di fonte legislativa o contrattuale, alla regola della onnicomprensività retributiva devono essere sostenute da un ragionevole fondamento giustificativo.
L’eccezione a tale principio, insita nella disciplina dei diritti di rogito, è stata motivata in ragione della ritenuta estraneità della funzione rogante rispetto alle prestazioni tipiche del pubblico impiego e della sua marcata affinità con la funzione notarile.
Tuttavia, è la stessa legge che, nell’ambito delle autonomie locali, da epoca risalente assegna tale competenza ai segretari comunali e provinciali, così inscrivendola nel «nucleo originario e tradizionale della funzione segretariale» (sentenza n. 23 del 2019) e, quindi, tra i «compiti istituzionali e perciò obbligatoriamente compresi nelle prestazioni di servizio» loro assegnate (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 18 dicembre 2008, n. 29673).
Né l’analogia tra la ricezione in forma pubblica amministrativa dei contratti in cui è parte l’ente locale e la funzione notarile consente di ritenere che il segretario svolga l’attività di rogito non in veste di dipendente dell’amministrazione, che stipula, per mezzo del suo ufficio, il contratto, ma in virtù di un’autonoma funzione al cui esercizio consegua una specifica responsabilità personale.
Tutto ciò premesso, prosegue la sentenza, va rilevato che il rapporto di strumentalità che corre tra il principio di onnicomprensività espresso dall’art. 24 del d.lgs. n. 165 del 2001 e il preminente interesse alla corretta e oculata allocazione delle risorse pubbliche e all’equilibrio di bilancio non inibisce al legislatore di introdurre disposizioni derogatorie, spettando alla sua discrezionalità stabilire discipline differenziate per regolare situazioni che ritenga, ragionevolmente e non arbitrariamente, connotate da elementi di distinzione (sentenze n. 383 del 1987 e n. 158 del 1975).
Tuttavia l’art. 10, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ha rimosso un beneficio economico che, remunerando lo svolgimento di una funzione istituzionale in aggiunta al più alto trattamento retributivo riconosciuto nel settore del lavoro pubblico (quello dirigenziale), ha rivelato nel tempo una intrinseca disarmonia con il sistema.
In conclusione, una disposizione siffatta non mina l’adeguatezza e la proporzionalità della retribuzione dei segretari comunali e provinciali e, quindi, non entra in conflitto con l’art. 36 Cost.
Prive di fondamento sono poi a giudizio della Consulta anche le censure che denunciano la violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la violazione del principio di eguaglianza non può, infatti, essere invocata quando la disposizione di legge da cui è tratto il tertium comparationis si riveli derogatoria di una regola generale. In questo caso la funzione del giudizio di legittimità costituzionale alla stregua dell’art. 3 Cost. non può coincidere che con il ripristino della disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare (sentenze n. 208 del 2019 e n. 96 del 2008), e non con l’estensione ad altri casi di quest’ultima, la quale aggraverebbe, anziché eliminare, il difetto di coerenza del sistema normativo (ex aliis, sentenze n. 98 del 2023, n. 206 del 2004 e n. 383 del 1992).
È pur vero che, in presenza di norme generali e di norme derogatorie, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale può, in taluni casi, realizzarsi tramite l’estensione della disciplina particolare ad altre fattispecie, purché ispirate alla medesima ratio derogandi (sentenze n. 98 del 2023 e n. 237 del 2020).
Nel caso di specie, tuttavia, le due situazioni poste a confronto – quella dei segretari che subiscono l’abrogazione dei diritti di rogito disposta dall’art. 10, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, e quella di coloro che, essendo soggetti al regime differenziato di cui al comma 2-bis del medesimo articolo, continuano a godere del beneficio – non rispondono alla medesima ragione giustificatrice.
La previsione derogatoria è stata inserita in sede di conversione al fine di attenuare l’impatto economico che la totale soppressione dei diritti di rogito, disposta dal testo originario del d.l. n. 90 del 2014, avrebbe prodotto sui segretari fruenti del trattamento economico più basso (segretari di fascia «C») o comunque non ammessi all’allineamento economico alla posizione dirigenziale previsto dall’art. 41, comma 5, del CCNL maggio 2001 (segretari di fasce «A» e «B» che prestano servizio in enti privi di dirigenti).
La genesi e le finalità della disciplina in scrutinio rievocano un analogo processo legislativo che, in passato, aveva già condotto all’eliminazione dei diritti di rogito per i segretari, poi ripristinati dalla legge n. 312 del 1980 e nuovamente rimodulati dalla disposizione qui in scrutinio.
Si tratta della eliminazione, ad opera dell’art. 27, quinto comma, del d.P.R. n. 749 del 1972, di tali diritti per i segretari di livello più elevato, alla quale si coniugò il riconoscimento, in favore degli stessi, dello stipendio dei dirigenti delle amministrazioni statali (art. 25, quinto comma, del d.P.R. n. 749 del 1972).
Come ricordato, a tale previsione seguì, a breve distanza di tempo, la soppressione, ad opera dell’art. 30, secondo comma, della legge n. 734 del 1973, dell’emolumento in questione anche per i segretari privi di qualifica dirigenziale, a fronte della quale l’art. 29 della medesima legge riconobbe a questi ultimi un assegno perequativo pensionabile.
Questa Corte ha osservato che la legge n. 734 del 1973 ha inteso «dare un diverso assetto al trattamento economico dei dipendenti civili dello Stato non aventi funzioni dirigenziali, al fine di introdurre anche per costoro i principi della c.d. onnicomprensività e della chiarezza retributiva» e che, «allo scopo di non arrecare danni economici e cioè di evitare una soverchia diminuzione della complessiva retribuzione dei dipendenti stessi, l’art. 1 della medesima legge ha accordato a costoro un assegno denominato “perequativo”, perché inteso (come del resto dice la stessa denominazione) ad evitare i cennati danni» (sentenza n. 227 del 1982).
Un’analoga finalità ha ispirato la scelta, alla base della previsione qui censurata, di mantenere l’emolumento per i soli segretari comunali e provinciali fruenti di un trattamento stipendiale complessivamente meno elevato.
La deroga introdotta dal comma 2-bis dell’art. 10 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, si inscrive, infatti, in una «logica perequativa e di ristoro sotto il profilo retributivo per i segretari che, per fascia di appartenenza e per numero di abitanti dell’ente territoriale in cui prestano servizio, non godano del trattamento equiparato a quello dirigenziale o non usufruiscano del galleggiamento per mancanza di dirigenti o per altre ragioni» (Corte conti, sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, delib. 33/2021/PAR, già citata).
Deve, pertanto, escludersi che la posta economica sottratta ai segretari con qualifica dirigenziale operanti in comuni e province muniti di dirigenti sia funzionalmente omogenea, e quindi comparabile, a quella attribuita ai segretari che, invece, prestano servizio in enti che ne sono privi, o sono sprovvisti di qualifica dirigenziale.
Le posizioni in comparazione, afferma la sentenza, si differenziano poi anche sotto il profilo soggettivo.
La normativa censurata sacrifica le sole posizioni di quei segretari che operano presso gli enti locali dotati di dirigenti, e che per tale ragione possono essere allineati, sotto il profilo economico, a tali figure apicali.
La comparazione auspicata dai rimettenti dovrebbe, quindi, avvenire tra dipendenti allineati economicamente alle figure apicali e dipendenti esclusi da tale equiparazione (in quanto collocati presso enti privi di dirigenti) o comunque destinatari di un trattamento economico significativamente inferiore rispetto a quello goduto dai primi (segretari privi di qualifica dirigenziale).