Con la recente ordinanza n. 32018 del 28 ottobre 2022, la Sezione Lavoro della Cassazione ha ricordato che, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass., Sez. L, n. 10992 del 9 giugno 2020).
Per l’esattezza, secondo la S.C. (Cass., Sez. L, n. 17698 del 6 agosto 2014), affinché sia integrata la fattispecie del mobbing lavorativo, occorre che ricorrano:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Tuttavia, come precisato dalla stessa Sezione Lavoro della Cassazione nella successiva ordinanza n. 32020 depositata in pari data, una volta esclusa la presenza di un intento persecutorio, costituisce onere del giudice valutare se, in base agli elementi dedotti, altre circostanze consentano di risalire in via presuntiva al fatto ignoto della presenza di un più tenue danno, come quello dipeso dallo straining.
Ricorda infatti la Cassazione che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (c.d. straining) e, a tal fine, il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (Cass., Sez. L, n. 3291 del 19 febbraio2016).
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ammette che il fenomeno dello straining, costituendo una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie, possa essere prospettato solo in appello se, nel ricorso di primo grado, gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati come mobbing, in quanto non vi è violazione dell’art. 112 c.p.c., costituendo entrambi comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute (Cass., Sez. L, n. 18164del 10 luglio 2018).
Nell’ordinanza si evidenzia tuttavia che, per la giurisprudenza di legittimità, il c.d. straining è ravvisabile quando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene” e non ove la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l’intera azienda (Cass., Sez. L, n. 2676 del 4 febbraio2021).