Come noto, in base al comma 1 dell’art. 33 del d.lgs. n. 165/2001, «Le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale prevista dall’articolo 6, comma 1, terzo e quarto periodo, sono tenute ad osservare le procedure previste dal presente articolo dandone immediata comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica».
I successivi commi 4 e 5 dello stesso art. 33 aggiungono poi che «il dirigente responsabile deve dare un’informativa preventiva alle rappresentanze unitarie del personale e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale del comparto o area. 5. Trascorsi dieci giorni dalla comunicazione di cui al comma 4, l’amministrazione applica l’articolo 72, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in subordine, verifica la ricollocazione totale o parziale del personale in situazione di soprannumero o di eccedenza nell’ambito della stessa amministrazione, anche mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro o a contratti di solidarietà, ovvero presso altre amministrazioni, previo accordo con le stesse, comprese nell’ambito della regione tenuto anche conto di quanto previsto dall’articolo 1, comma 29, del decreto-legge 13 agosto 2011., n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge14 settembre 2011, n. 148, nonché del comma 6».
La disposizione in esame, dunque, dopo aver previsto, quale forma privilegiata di riduzione dell’eccedenza medesima, il ricorso al collocamento a riposo del personale in possesso della massima anzianità contributiva, in via subordinata menziona «la ricollocazione totale o parziale del personale in posizione di soprannumero o di eccedenza nell’ambito della stessa amministrazione, anche mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro o a contratti solidarietà».
A giudizio della della Cassazione, il richiamo al contratto di solidarietà evoca, evidentemente, l’istituto introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 1 del d.l. n. 726/1984, convertito dalla legge n. 863/1984, e sul quale hanno successivamente inciso molteplici disposizioni (si rimanda alla motivazione di cass. n. 22255/2015), che nel suo impianto fondamentale, rimasto inalterato, integra un’ipotesi di intervento della cassa integrazione guadagni, conseguente alla stipulazione di un contratto collettivo di diminuzione dell’orario e della retribuzione, finalizzata ad evitare, in tutto o in parte, la riduzione del personale.
La stessa Cassazione, a partire da cass. n.24706/2007, ha chiarito che il contratto aziendale si inserisce all’interno di una fattispecie complessa, comprensiva del contratto di solidarietà e del provvedimento ministeriale di ammissione all’integrazione salariale, e ne ha tratto la conseguenza che la riduzione di orario e di retribuzione, prevista dalla legge, opera erga omnes non già in virtù di una efficacia normativa generale della contrattazione, ma a seguito del provvedimento amministrativo di ammissione all’integrazione salariale, rispetto al quale il contratto vale solo come presupposto (cfr. fra le tante cass. n. 9307/2021 e Cass. n. 22266/2021).
La temporanea modifica peggiorativa, in via collettiva, del contenuto dei rapporti individuali, è sostenuta dal concorso finanziario dello Stato che rende meno gravosa la solidarietà fra lavoratori e costituisce uno strumento di tutela degli interessi di quest’ ultimi, perché consente di scongiurare l’esubero del personale e la conseguente risoluzione dei rapporti di lavoro.
È noto, precisano i Giudici, che l’istituto della cassa integrazione guadagni, nell’ambito del quale si iscrive il particolare strumento di cui si è dato conto nel punto che precede, non è applicabile all’impiego pubblico contrattualizzato e, nondimeno, il legislatore ha individuato nel contratto di solidarietà una delle modalità attraverso le quali gli enti pubblici possono procedere alla “ricollocazione totale o parziale” del personale eccedente.
La norma, che è chiara nel riferimento al contratto in parola e non contiene alcun dato testuale dal quale si possa desumere il carattere meramente programmatico del richiamo, autorizza, dunque, il datore di lavoro pubblico a procedere alla generalizzata riduzione dell’orario del personale in servizio, anche se non direttamente ricompreso fra quello eccedente, purché la riduzione medesima intervenga nell’ambito della procedura disciplinata dall’art. 33 e sia frutto di contrattazione a livello di ente, contrattazione che, in linea con il sistema delle fonti delineato dal d.lgs. n. 165/2001, ha efficacia generalizzata, a prescindere dall’adesione o meno del dipendente alle organizzazioni stipulanti, e prevale sulla contrattazione individuale di diverso tenore.
Nell’impiego privato, dunque, il contratto di solidarietà si iscrive in una fattispecie più complessa e costituisce un presupposto del provvedimento di ammissione alla cassa integrazione guadagni, in difetto del quale il contratto medesimo non è idoneo a giustificare la riduzione in peius dell’orario di lavoro; nell’impiego pubblico contrattualizzato, invece, si prescinde dall’intervento statale e la sola stipulazione del contratto di solidarietà, se validamente intervenuta nell’ambito della procedura disciplinata dal citato art. 33, giustifica la modifica non concordata dell’orario di lavoro, in deroga al principio della consensualità.
La diversità di disciplina fra impiego privato ed impiego pubblico, ancorché “privatizzato”, si giustifica in ragione degli interessi di carattere generale che vengono in rilievo rispetto ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tenute ad assicurare, in ottemperanza a quanto prescritto dall’art. 97 Cast., l’equilibrio dei bilanci e del debito pubblico, nonché gli «obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità» (art. 2, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 165/2001).
È significativo ricordare quanto affermato dalla Corte Costituzionale la quale, in più occasioni, ha evidenziato che «il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere in tutto e per tutto assimilati e le differenze, pur attenuate, permangono anche in seguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni» (Corte Cost. 23.7.2015 n. 178 che richiama Corte Cast. 10.5.2012 n. 120 e Corte Cost. 16.5.2008 n. 146).
La giurisprudenza costituzionale, quindi, avverte che, pur a seguito della contrattualizzazione dell’impiego pubblico, la disciplina di quest’ultimo non necessariamente deve essere mutuata in tutti i suoi aspetti da quella del rapporto privato, e ciò perché vengono comunque in rilievo interessi di carattere generale dei quali il legislatore ordinario non può non tener conto, interessi che giustificano differenze non solo in relazione alla genesi del rapporto, con riferimento alla quale l’art. 97 impone la regola, ignota al diritto privato, del concorso pubblico, ma anche nella fase di svolgimento del rapporto stesso, in quanto le obbligazioni che dal medesimo scaturiscono devono essere in linea con gli obblighi che il Costituente ha imposto, da un lato, alle pubbliche amministrazione (art. 97 Cost.), dall’altro ai soggetti chiamati ad assolvere a pubbliche funzioni (artt. 54 e 98 Cost.).
È quanto si legge nella sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione n. 16036 del 10 giugno 2024.
Con la sentenza in esame i Giudici della Corte hanno però anche evidenziato che, in assenza di un contratto di solidarietà validamente sottoscritto, il datore di lavoro pubblico non può unilateralmente disporre per tutto il personale la riduzione dell’orario e del conseguente trattamento retributivo.
Questa Corte ha infatti da tempo affermato che, in difetto di specifiche disposizioni derogatorie, anche nell’impiego pubblico contrattualizzato la trasformazione del rapporto da full time a part time (e viceversa) non può essere unilaterale e presuppone la consensualità (cfr. cass. n. 15999/2022; cass. n. 276/2024), con la conseguenza che opera il medesimo principio enunciato per il rapporto alle dipendenze di privati secondo cui «configurando la modalità oraria un elemento qualificante della prestazione oggetto del contratto part-time, la variazione, in aumento o in diminuzione, del monte ore pattuito, costituisce una novazione oggettiva dell’intesa negoziale inizialmente concordata, che richiede una rinnovata manifestazione di volontà» (cass. n. 1375/2018).
Al principio della consensualità, affermato con chiarezza dall’art. 5 del d.lgs. n. 61/2000 e poi ribadito dall’art. 8 del d.lgs. n. 81/2015 (non applicabile alla fattispecie ratione temporis), si ispira la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, la quale prevede che, in presenza di rapporto a tempo pieno, la trasformazione è subordinata alla richiesta del dipendente interessato ed al rispetto delle ulteriori condizioni previste dalla contrattazione medesima, che, al pari delle disposizioni normative, realizza un contemperamento fra gli opposti interessi delle parti.
Il potere unilaterale di riduzione dell’orario di lavoro, inoltre, non può essere fondato sul disposto dell’art. 40, comma 3 ter, del d.lgs. n. 165/2001, al quale la Corte territoriale ha fatto riferimento nel ritenere legittimo l’operato del Comune anche per il periodo antecedente alla sottoscrizione dell’accordo sindacale del 23 dicembre 2013.
Il comma 3 ter, infatti, va letto in combinato disposto con il comma 3 bis dello stesso articolo ed è applicabile nella sola ipotesi di contrattazione integrativa da svolgere sulle materie e nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale, e, quindi, limitatamente a quegli istituti di carattere economico che, previsti da quest’ultima, richiedono di essere specificati a livello del singolo ente, perché connessi all’organizzazione dello stesso ed alle risorse finanziarie del datore di lavoro pubblico.
L’ambito di applicazione dell’art. 40, comma 3 ter, non ricomprende, invece, le materie non previste dalla contrattazione nazionale e disciplinate da altre specifiche disposizioni di legge, come accade nella fattispecie, nella quale il potere unilaterale del datore di lavoro finalizzato all’eliminazione dell’eccedenza di personale deve essere esercitato nel rispetto dell’art. 33 del d.lgs. n. 165/2001.