Con sentenza n. 1845 del 17 maggio 2024, il TAR della Sicilia, Sezione distaccata di Catania, ha ravvisato l’illegittimità del regolamento per la disciplina delle progressioni verticali approvato da un ente locale nella parte in cui esso prevede che, nell’ipotesi di pari punteggio conseguito dai candidati nella graduatoria finale della selezione e di eguale loro anzianità di servizio, sarà data preferenza alla maggiore anzianità anagrafica.
I Giudici hanno infatti evidenziato che tale previsione regolamentare contrasta palesemente con il disposto dell’art 3, comma 7, della legge n. 127/1997, come innovato dall’articolo 2, comma 9, della legge 16 giugno 1998, n. 191, ai sensi del quale “Sono aboliti i titoli preferenziali relativi all’età e restano fermi le altre limitazioni e i requisiti previsti dalle leggi e dai regolamenti per l’ammissione ai concorsi pubblici. Se due o più candidati ottengono, a conclusione delle operazioni di valutazione dei titoli e delle prove di esame, pari punteggio, è preferito il candidato più giovane di età”.
L’Amministrazione ha provato a controbattere che, trattandosi di procedure interne di progressione di carriera, non trovano applicazione nel caso di specie le norme relative ai concorsi pubblici e che la preferenza per la più elevata anzianità anagrafica appare coerente con la finalità di valorizzazione del personale dotato di maggiore esperienza sottesa alla tipologia di selezioni di cui si discute, ma il TAR ha replicato che la disciplina del riformato art. 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 165/2001 è ispirata al criterio della valorizzazione del “merito” dei dipendenti, che non si esaurisce nell’esperienza professionale in sé (la quale, peraltro, rileva anche per il tramite del criterio preferenziale dell’anzianità di servizio), ma include, più in generale, la formazione, la competenza e la qualificazione professionale del lavoratore.
Invero, prosegue la sentenza, la norma stabilisce che la procedura comparativa per le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, è basata “sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno, nonché sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti”.
Dunque, come precisato dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’indomani della novella, con parere in data 6 ottobre 2021, “Appare chiaro, alla luce del quadro delineato, l’intento del legislatore di valorizzare gli elementi maggiormente qualificanti che connotano l’excursus professionale, formativo e comportamentale del dipendente, al fine di rendere esplicito che il ricorso alla procedura comparativa in luogo di quella concorsuale è idonea e parimenti efficace nell’assicurare che la progressione di area e/o categoria o qualifica avvenga a beneficio dei più capaci e meritevoli”.
Ciò consente di ritenere che, in relazione alle procedure selettive di cui trattasi – salva l’innovazione legata al potenziamento del canale interno di accesso, attraverso il superamento della regola del concorso aperto agli esterni – permangano, sul piano sostanziale, le caratteristiche proprie della concorsualità intesa come comparazione tra candidati, i cui esiti si traducano in una graduatoria basata sull’ordine di merito, ai fini della selezione del candidato più capace.
Da questo punto di vista, la maggiore qualificazione professionale – che la procedura comparativa intende valorizzare – non è necessariamente legata alla (maggiore) anzianità anagrafica, dipendendo da fattori diversi, quali il conseguimento di titoli di studio e professionali, lo svolgimento di incarichi, anche di responsabilità, per l’Amministrazione, conferiti sulla base del merito e della particolare attitudine del dipendente, lo svolgimento del servizio con diligenza e, dunque, la produttività e l’efficienza del dipendente.
Del resto, la compatibilità del criterio della preferenza per la minore età del candidato, a parità di altri titoli, con gli obiettivi di valorizzazione della qualificazione professionale dei pubblici dipendenti e di efficientamento della pubblica amministrazione è stata acclarata dalla Corte Costituzionale con sentenza 19 luglio 2001, n. 268, che, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, legge n. 127 del 1997 (come modificato dall’art. 2, comma 9, legge n. 191 del 1998), ha ritenuto la norma non arbitraria né irragionevole, in quanto “si inserisce in un progetto riformatore che ha per obiettivo di coniugare il principio di solidarietà con quello di efficienza della pubblica amministrazione, nel quadro della privatizzazione del pubblico impiego, ispirata ad un ampio rinnovamento del personale amministrativo, particolarmente investendo in risorse umane giovani e meritevoli, sì da garantire un servizio più efficiente e duraturo”.
Restano, quindi, fermi i principi, già espressi dalla giurisprudenza, in ordine all’assimilazione delle progressioni verticali ai concorsi pubblici ai fini dell’applicazione delle regole di svolgimento del concorso, quanto, in particolare, ai criteri di preferenza.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di precisare che “Sia nelle progressioni verticali che nell’accesso al lavoro pubblico va applicata la normativa legislativa statale e quella regolamentare comunale, secondo la quale il criterio dell’età è residuale, rispetto ai criteri di preferenza di carattere generale (tra cui, quello di risultare genitore)” (Cons. Stato, Sez. V, 12 febbraio 2016, n. 618), con ciò presupponendosi l’applicazione alle progressioni verticali dell’art. 3, comma 7, legge n. 127/1997 (che, sul punto, ha parzialmente abrogato, per incompatibilità sopravvenuta, l’art. 5, comma 5, del D.P.R. n. 487/1994, il quale, nella formulazione al tempo vigente, stabiliva l’opposto criterio della preferenza per il candidato di maggiore età).