Laddove il CCNL prevede l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso per i delitti previsti dall’art. 3, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (cfr. art. 59, comma 9, punto 2, lett. e), del CCNL del comparto Funzioni Locali del 21 maggio 2018), appare indiscusso che il nomen juris “delitti” sia riferibile tanto alle ipotesi di “delitto consumato” che a quelle di “delitto tentato”.
Lo ha affermato la Sezione Lavoro della Cassazione nella recente sentenza n. 23881 del 1° agosto 2022.
Infatti, affermano i Giudici, la disposizione de qua è finalizzata ad individuare fatti criminosi, nella specie particolarmente qualificati perché rientranti nell’ambito dei reati contro la P.A., idonei a fare venire meno in maniera palese e definitiva il legame fiduciario fra l’amministrazione e il funzionario in quanto espressivi di una lesione estremamente grave dell’obbligo di fedeltà, inteso come generale dovere di leale cooperazione del lavoratore nei confronti del suo datore.
Nel caso in questione, sia l’illecito consumato sia quello tentato violano in maniera analoga i doveri gravanti sul lavoratore, atteso che vengono percepiti allo stesso modo come incompatibili con la continuazione del rapporto sia all’interno dell’organizzazione, non potendosi più fidare la P.A. di un soggetto che abbia cercato di utilizzare i propri poteri per trarne un vantaggio illecito, sia all’esterno della medesima, alla luce del discredito che la condotta penalmente rilevante, a prescindere dal perfezionamento o meno del reato, diffonde fra i cittadini.
D’altronde, prosegue la sentenza, pur dovendosi tenere conto di alcune differenze strutturali fra il delitto tentato e quello consumato, l’azione posta in essere è in gran parte sovrapponibile, spesso non dipendendo neppure dalla volontà dell’autore dell’illecito il verificarsi dell’una o dell’altra ipotesi.
Inoltre, occorre considerare che il linguaggio utilizzato nella materia de qua nella redazione dei contratti collettivi non è mai del tutto tecnico, tendendo le parti contraenti, più che a qualificare in maniera scientificamente ineccepibile le infrazioni rilevanti, ad individuare ipotesi esemplificative di un disvalore non tanto riconducibile ad uno specifico reato, ma ad una compromissione definitiva del legame fiduciario che deve esistere fra datore di lavoro e suo dipendente.
Al riguardo, può menzionarsi la giurisprudenza per la quale, in tema di sanzioni disciplinari, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario. Ad esempio, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al lavoratore resosi responsabile di aggressione fisica ai danni di un collega, pur non essendo tale condotta riconducibile al delitto di rissa, per il quale il CCNL di settore contemplava espressamente la sanzione espulsiva, avuto riguardo al particolare disvalore del fatto, denotato dalle modalità attuative, dall’entità delle lesioni e dal clamore suscitato dalla vicenda nell’ambiente di lavoro (Cass., Sez. 6-L, n. 28492 del 7 novembre 2018).
L’indirizzo da ultimo citato, conclude la sentenza, pur essendosi formato in relazione a fattispecie diverse da quella oggetto del contendere, si presta, però, ad essere applicato nella presente controversia, evidenziando come a rilevare, in materia di licenziamento disciplinare, sia non tanto la formale individuazione della condotta vietata operata dalle parti contraenti al momento della redazione del CCNL, quanto la natura dell’interesse compromesso e la gravità dell’offesa arrecata allo stesso, tali da precludere la prosecuzione del rapporto lavorativo.