Con sentenza n. 6062 del 27 agosto 2021, il Consiglio di Stato ha rilevato che la distinzione tra appalto e interposizione di manodopera – con il connesso divieto di ricorrere alla seconda in difetto dei relativi presupposti legittimanti – trova la sua base normativa nel disposto dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, ai sensi del quale “ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Trattasi, quindi, di distinzione (e di connesso divieto) che trova il suo contesto applicativo tipico ed esclusivo nei casi in cui il committente e l’affidatario (di una prestazione di facere) si pongano in una relazione di alterità soggettiva, nell’ambito della quale, tra le rispettive strutture organizzative, non siano ravvisabili interferenze, conservando esse la propria autonomia funzionale: ricorrendo tale (ordinaria) situazione organizzativa, infatti, il legislatore ha avvertito l’esigenza di evitare fenomeni di fittizia imputazione del rapporto di lavoro, suscettibili di incidere sulla tutela dei lavoratori e di generare dubbi sulla univoca individuazione della figura datoriale.
Tali essendo i presupposti applicativi (e la stessa ratio) della previsione in esame, è evidente, affermano i Giudici amministrativi, che gli stessi non ricorrono laddove lo stesso legislatore ammetta la legittimità di forme di affidamento diretto di un servizio tra soggetti appartenenti ad un centro di imputazione di interessi sostanzialmente unitario (sebbene formalmente articolato in una duplice soggettività giuridica), siccome accomunati dal perseguimento di un unico obiettivo attraverso la predisposizione di una struttura organizzativa strettamente compenetrata ed unitariamente diretta: quale appunto si riscontra nell’ipotesi della cd. società in house.
È noto, infatti, che, ai fini della configurazione del requisito del cd. controllo analogo dell’ente pubblico partecipante nei confronti della società in house, quel che rileva è che il primo abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della seconda, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica: ciò in quanto l’espressione “controllo” non può essere ritenuto sinonimo di un’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali, trattandosi invece di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal Codice Civile, fino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., n. 1 del 3 marzo 2008).
Nello stesso ordine di idee, è stato altresì autorevolmente ritenuto che la società in house non possa qualificarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna: essa, infatti, rappresenta un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica, giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle relative condizioni legittimanti “esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo» (Corte cost. n. 325 del 3 novembre 2010), talché “l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa” (Cons. Stato, Ad. plen., n. 1 del 2008, cit.; va solo precisato che tale conclusione non cambia ove si ritenga che, in linea con la più recente normativa europea e nazionale, il ricorso all’in house providing si atteggi in termini di equiordinazione – e non più di eccezionalità – rispetto alle altre forme di affidamento).