Come noto, secondo un consolidato indirizzo interpretativo del Dipartimento della Funzione Pubblica, «il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato da parte del soggetto che ha già avuto un rapporto di lavoro a termine con l’amministrazione consente di azzerare la durata del contratto precedente ai fini del computo del limite massimo dei 36 mesi previsto dal d.lgs. 368/2001, nonché la non applicabilità degli intervalli temporali in caso di successione di contratti.
Conseguentemente, l’amministrazione può stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato con il soggetto utilmente collocato nella graduatoria del concorso anche laddove l’interessato abbia già avuto contratti a termine con la stessa amministrazione, ancorché di durata complessiva corrispondente ai 36 mesi, e pure nel caso in cui tra i successivi contratti non sia ancora trascorso l’intervallo temporale previsto dalla disciplina normativa» (si v. ad es. il parere 37562 del 19/9/2012).
Ora, però, con la sentenza n. 6089 del 4 marzo 2021, la Suprema Corte di Cassazione dimostra di non condividere tale interpretazione, affermando che nessun rilievo può essere attribuito all’espletamento di una nuova procedura concorsuale; il ripetersi dei concorsi pubblici per l’assunzione a termine da parte della stessa amministrazione potrebbe consentire l’impiego dello stesso lavoratore per coprire il medesimo posto vacante per un periodo di tempo potenzialmente illimitato.
Se il concorso pubblico consentisse la successione dei contratti a termine per ripetuti trienni, affermano i Giudici, nella sostanza resterebbe violata anche la previsione secondo cui la pubblica amministrazione può ricorrere al lavoro flessibile solo in presenza di esigenze «temporanee ed eccezionali», giacché il ricorrere di esigenze temporanee ed eccezionali va escluso a fronte dell’impiego del lavoratore a termine in mansioni equivalenti per un periodo superiore ai 36 mesi.